Testo e foto di Alessio Duranti
Nelle colline intorno a casa mia, lontano dalle nebbie e dall’umidità della pianura, da ottobre fino alla fine di novembre si cominciano a raccogliere le olive e tutto ha ancora in gran parte il sapore di un rito familiare. “Riti di lavoro, divisione in squadre, rivalità e canto di stornelli tra i coglitori”, così scrive Carlo Lapucci nel suo libro L’economia dei contadini.
I coglitori vestono la terra di reti verdi e bianche e pettinano con cura migliaia di olivi. Si decide come procedere, da quale fila iniziare, si organizzano le squadre, chi raccoglie e chi stende le reti.
La raccolta ha inizio.
Qualcuno butta giù le olive a mano, abbraccia la pianta e con delicatezza striglia ramo per ramo l’ulivo, sale la chioma per spogliare i rami più alti, mentre altri raccolgono dal basso con gli abbattitori, con cura e con attenzione lavorano sulla pianta. Il silenzio dei campi viene interrotto dal cicalio delle “manine”, dal movimento delle reti sull’erba e dalle scale che geometricamente si appoggiano alle piante.
Si raccoglie dal mattino fino a sera, a metà giornata una pausa, ci si organizza intorno alle casse piene di olive, si pranza, ci si riposa prima di riprendere la raccolta. Pane, vino e sole.
Qualche anziano, i segni del tempo nel volto, solchi di rughe che sembrano rami di olivo, spreme ancora le olive con le ceste e il torchio. Normalmente si prenota il frantoio per poi gustare l’olio nuovo su una bella fetta di pane “crogiato”.
Andrea Semplici ne La speranza tenace dell’olio nuovo ha scritto che questo lavoro ci regala la felicità prima dell’inverno perché la raccolta è anche un momento di festa. È vero, e così ricorda anche Neruda: “Non soltanto il vino canta, anche l’olio canta”.