Testo e foto di Elena Dak
Il tempo delle grandi esplorazioni sembra finito. Quando Livingstone risaliva il corso dello Zambesi o cercava le sorgenti del Nilo e Humboldt si avventurava lungo il sistema fluviale dell’Orinoco, la scena globale offriva innumerevoli sfide e stuzzicava gli istinti di chi aveva coraggio e finanziatori alle spalle. Il mondo era a cavallo tra il 18° e 19° secolo, i tempi d’oro delle grandi scoperte. Le vie d’acqua erano le vene utili ad insinuarsi in regioni dove nessuno era arrivato prima. Si scoprivano letteralmente pezzi di terra ignoti all’uomo, si cercavano conferme a leggende o supposizioni, si affrontava ogni tipo di rischio o fatica pur di portare a termine la propria missione e passare alla storia. Il sacro fuoco dell’avventura animava sogni, legittimava inganni e menzogne, nutriva spedizioni che duravano anni e la morte in corso di viaggio era una possibilità non remota. A ripensare a quei tempi parrebbe che l’epoca dell’esplorazione fosse finita per sempre.
Se è vero che i fondali oceanici, le terre svestite dallo scioglimento dei ghiacci e le viscere terrestri apriranno spazi ignoti in cui avventurarsi sorretti dalle nuove tecnologie, tuttavia questi pezzi di crosta terrestre saranno offerti allo studio di pochi scienziati o specialisti e i più tra noi potranno ripercorrere “turisticamente” orme già battute e sollevare polvere dove milioni di suole prima lo hanno già fatto. Eppure esiste una micro-geografia che pullula in ogni dove, trascurata dai più e sopraffatta dalle bellissime visioni da cartolina, dalle vedute complessive del mondo, dai monumenti che la natura o l’uomo hanno eretto in ogni dove. È facile in realtà imbattersi in questa “geografia degli interstizi”: si tratta di guardare dalla parte opposta rispetto al luogo verso cui tutti stanno guardando. Là, in quell’angolo trascurato, in quella via vuota che nessuno percorre, sul marciapiede opposto al mercato stanno accadendo cose il cui valore e la bellezza, stanno tutti nello sguardo di chi li vuole cogliere.
Mi sono incaponita nel voler capire cosa ci fosse a terra, lungo una striscia di strada a Lahore, in Pakistan, in mezzo al traffico: erano giocattoli di latta per bambine che volessero giocare a “casetta”. Erano fatti a mano, e mi domandavo dove mai corressero tutti così di fretta, mentre a terra di svelava quella timida mobiglia. Occorre essere soli il più delle volte. Se si resiste alla tentazione di fotografare talvolta, non sempre, succedono cose che altrimenti non vivremmo, come quando sono potuta entrare, con pochi altri, in un villaggio di arabi ciadiani e passare una mezz’ora con loro in stato di grazia, mentre cercavano di dare fondo a tutto il loro spirito di accoglienza. Se avessimo tentato di imporre la nostra volontà di fotografare, quella mezz’ora di privilegio non sarebbe mai stata vissuta. Quel villaggio non ha nome, non esiste su nessuna carta, è parte di una geografia nomade, fluida e conosciuta solo a chi vive lì o frequenta con assiduità quei luoghi. Anche gli autisti più esperti spesso non conoscono i nomi di alcune località sia perché nascoste nelle pieghe meno battute del territorio sia perché in qualche caso sono villeggi che si spostano stagionalmente. Che meraviglia questa mappa incerta, questi percorsi variabili, questi paesini senza nome o quasi, questi momenti e luoghi dove l’incanto si sprigiona. Come quando mi ritrovai sola sui gradini della Moschea di Djenné, in Mali, al tramonto: del mercato affollato del giorno restavano solo alcuni pezzi di scarto abbandonati sulla sabbia. La piazza era deserta e solo un asino stava solo a ridosso del muro. Quella luce sulla superficie terrosa dell’edificio e la voce del Muezzin che chiamava alla preghiera e la mia solitudine trasformarono tutto in dono. E’ una geografia fatta di luci, sfumature, impalpabili atmosfere, attimi fuggenti; occorre dotarsi di incanto, allenarsi ad ascoltare ciò che non fa rumore, stabilire che l’imprevisto nasconde, sempre, una sorpresa, uscire continuamene dalla rotta segnata, cercare le crepe, le fughe tra le piastrelle, le imperfezioni. Imporre ostinatamente alla pupilla esercizi di umiltà, darsi al perdersi e non arrendersi al già visto come se una volta potesse bastare. Una volta una signora non volle fare due passi per avvicinarsi alla lingua di un ghiacciaio e disse: “Ne ho visti di ghiacciai! Visto uno, visti tutti”. Sono passati più di vent’anni da quella frase e non esiste ghiacciaio che non si distingua dagli altri, sfumatura azzurra che non sia emotiva, lame gelide di una superficie unica e irripetibile, che a distanza di poche ore o giorni sarà diversa.
Un volta, Kapuscinski, fu inviato ad Algeri senza che lui ne capisse il motivo. Non stava accadendo nulla. Il suo taccuino era vuoto, gli pareva che non ci fosse niente da raccontare e la frustrazione lo metteva a disagio. C’era stato un colpo di stato, questo si, ma nulla di eclatante che esprimesse il dissesto politico. Cosa raccontare dunque? Quel nulla apparente fu, per ammissione stessa del grande reporter, una delle più preziose lezioni che la vita gli riservò. Il mondo si poteva e si doveva leggere, almeno nel suo caso, anche al di fuori delle esplosioni, del fumo delle bombe e dei morti per la strada. Era necessario uscire dagli stereotipi per indagare i retroscena. Di colpo, invertita la direzione dello sguardo, Algeri gli parve il luogo più affascinante del mondo. Ad Algeri capì cosa fosse il Mediterraneo, ad esempio, semplicemente toccandolo, odorando le “folate di vento che portavano soprattutto il sentore acre del mare e il suo fresco alito ristoratore”. Da allora Kapuscinski si armò di un naso, di una curiosità, di un istinto che lo portarono a guardare il dietro le quinte dove la pupilla stenta ad indagare per la penombra, e dove tuttavia si articola quella geografia a torto detta minore, senza la quale il palcoscenico non sarebbe.
Tento di imparare la lezione dal grande reporter e mi alleno poco a poco. Mi guardano stupiti quando fotografo la parete di un ristorante nelle campagne pakistane, su cui campeggia una magnifica aquila, deturpata da un condizionatore e nello stesso ristorante, vuoto per il virus, ritraggo i fiori, rigorosamente di plastica, di un tavolo apparecchiato, fiori disposti con tale cura che mi pare meritino il mio sguardo.
Ho visto solo io, un giorno ad Islamabad, un padre al volante della sua auto, fermo al semaforo, suonare il flauto verde della figlia, alla figlia seduta dietro. Non potevo nemmeno richiamare l’attenzione degli altri su quegli istanti di giocosa tenerezza che a breve si sarebbero smaterializzati: la tappa senza nome di una mappa percorribile su sentieri ogni volta diversi.