Testo di Federica Grilli, foto di Federico Romoli
La guerra è entrata in casa mia.
Eppure dovremmo esserci abituati: giorno dopo giorno la rete ci sbatte in faccia immagini su immagini. Non è più come un tempo quando il proprio uomo veniva mandato al fronte e si aspettava le lettere a casa non avendo notizie fino a che non ne arrivavano di belle o di tragiche.
Adesso è tutto cambiato: giriamo il mondo e abbiamo la possibilità di vedere i teatri di genocidi; ho visitato la Cambogia dove l’audioguida ti racconta di mostruosità mentre cammini in mezzo a fosse comuni dove la terra continua a vomitare fuori ossa per ricordarti che lei stessa non ha ancora trovato pace. Ho scritto una tesi su la guerra in Bosnia ed ho visitato Sarajevo poco dopo la sua fine ed intervistato le persone che l’avevano vissuta sulla propria pelle. Ho visitato l’Iran, abitato da un popolo meraviglioso, dove, però, la pena di morte è all’ordine del giorno per qualcosa che noi non reputiamo neanche essere un reato. I social ci inondano quotidianamente di foto strazianti di immigrati che implorano di venire nel nostro paese e affrontano un mare piuttosto inclemente perché, evidentemente, tutto è meglio che restare dove sono nati.
Eppure mi vien da chiedermi se tutta questa sfilata di orrendi crimini davanti ai nostri occhi non ci abbia resi solo più insensibili, come se ormai fosse routine: in fondo, quando la sera spegniamo il computer o la tv, le immagini non continuano a tormentarci nel sonno.
Quando il mio uomo è partito per l’Afghanistan non mi sono preoccupata, ero forse addirittura emozionata. La maggior parte delle persone fa fatica a localizzare questo paese e quando viene a sapere che Federico ci lavora mi guarda come se fossi già vedova.
Mi aveva parlato dei minareti di Herat, degli amici che dopo 10 anni di assenza avrebbe rincontrato, dell’orgoglioso popolo afghano che più volte aveva protetto la propria terra dallo straniero; avevamo ripercorso insieme ad Erodoto un paio di anni prima i viaggi un po’ hippie degli anni 70 verso questa terra ed il viaggio dei suoi genitori con tanto di foto di fronte alle statue dei Buddha non ancora distrutte dai talebani; su internet trovavo racconti di come si stia cercando di ricostruire Bamyan, foto dei laghi blu di Band-e-amir ed infine avevo letto libri che parlano della bellezza dell’Hindukush, dell’impensabile ospitalità di quel popolo che vanta più di quaranta tipi di uva, dove quaranta sta per “…innumerevoli, in quantità infinita, significa dolcezza, profusione senza limiti.”
Ma questa è letteratura. Il mio Afghanistan invece è una stanza angusta e spoglia che si intravede nella telecamera di skype ogni sera, quando la connessione lo consente; è un compound da cui non si può uscire, è un giubbotto antiproiettile e un caschetto verde. Il mio Afghanistan è un gruppo Facebook dove gli afghani si scambiano informazioni su dove sia caduto l’ultimo razzo e parlano di zone della città che io non conosco quindi ogni razzo potrebbe essere caduto dove non vorrei mai. L’Afghanistan per me è un messaggio whatsapp da un bunker (per carità, meglio che nulla!!). L’Afghanistan è inviare messaggi whatsapp attendendo la seconda spunta per rassicurarsi che dall’altra parte ci sia ancora chi vorresti ti rispondesse. Quando la seconda spunta non appare preghi che sia per un temporale che ha interrotto la connessione, ma la notti sogni lo stesso la chiamata dalla Farnesina.
Quindi sì, la guerra è entrata in casa mia, nella mia quotidianità, nel mio telefono con l’orologio regolato sul fuso di Kabul, con le chiamate skype, con Facebook ed ogni altro mezzo di comunicazione possibile che adesso colpisce la mia sensibilità in maniera differente rispetto alle foto ampiamente profuse online, non ci sono foto strazianti perché lo strazio appartiene solo a me. E’ come essere là senza esserci veramente, è come essere sospesa tra due mondi di cui uno non è poi così reale: è forse questo l’Afghanistan? Cosa c’è adesso, agli inizi dell’offensiva talebana di primavera che chiamano Omar, fuori dalle mura del compound?
Il mio Afghanistan è questo. Forse un giorno tornerà ad essere quello che avevo immaginato che fosse e camminerò nei giardini di Babur, ma non oggi.