Testo e foto di Marco Steiner

A questo punto vorrei ricordare un’esperienza di viaggio reale sull’isola di Chiloé, in Cile.
Ero in viaggio con Marco D’Anna fra la Patagonia argentina a quella cilena alla ricerca degli scenari possibili per un futuro romanzo ambientato fra la pampa e i mari gelati del Canale di Beagle.
Chiloé per me rappresentava un luogo nodale, una meta geografica e letteraria idealizzata in un insieme di storie legate ai romanzi di Francisco Coloane e poi c’erano le leggende marinare del Caleuche, il vascello fantasma che raccoglieva gli spiriti naufraghi dei marinai in cerca di pace; c’erano le migrazioni dei nativi Chonos, pescatori e cacciatori nomadi che si spostavano fra i canali a bordo delle loro canoe intagliate nei tronchi e poi Chiloé era da sempre l’isola base di partenza o arrivo per tutti i navigatori che cercavano di doppiare il mitico Capo Horn.
L’approccio inconsueto con Chiloé iniziò dal traghetto in partenza da Chaitén, una piccola cittadina della costa meridionale argentina, il vento e mare erano rabbiosi, non si poteva salpare in sicurezza, per cui la partenza venne rimandata.
Nel pomeriggio, arrivò l’avviso della partenza e finalmente il traghetto si staccò da quella costa scura, l’idea era quella di sbarcare a Quellon, sulla costa meridionale dell’isola per poi risalire lentamente verso nord costeggiando il lato orientale dell’isola, quello dalla parte del Mare di Ancud.
Sul traghetto c’erano principalmente camionisti che trasferivano una grossa mandria di vacche.
La traversata non si presentava tranquilla, la nave iniziò a beccheggiare scossa dalle onde lunghe che la investivano frontalmente e gli animali spaventati iniziarono a muggire e a slittare sui pianali degli automezzi già sporchi di liquami, a spingersi e a cadere sballottati dal successivo rollio laterale provocato dalle onde scomposte che si abbattevano sui fianchi della nave.
Al bancone del bar iniziò una vaga conversazione fatta di frasi smozzate con un paio di camionisti curiosi di sapere cosa ci facessimo su quella nave.
Quando iniziammo a parlare dei luoghi sulla costa orientale uno di loro, guardando le macchine fotografiche di Marco D’Anna, ci chiese cosa cercassimo a Chiloé. “Storie di mare”, sintetizzai e lui, immediato: “Allora andatevene a Cucao, là potrete vedere le onde vere, quelle del Pacifico non queste che fanno solo cagare le vacche”.
Cucao si trovava dall’altra parte dell’isola, non l’avevamo presa in considerazione, non era sulla strada principale, non era nella direzione stabilita, non ci erano rimasti molti giorni prima del ritorno obbligato, ma l’idea di quelle grandi onde ci attirava, così, dopo varie deviazioni e strade secondarie arrivammo di notte in quel solitario villaggio di case sparse. I lampioni ondeggiavano cigolando nel vento e larghe pozzanghere di fango schizzavano i vetri dell’auto. Alla fine, trovammo un alloggio.
Il giorno successivo, dopo aver attraversato un tratto dissestato che percorreva l’interno dell’isola, arrivammo alla grande spiaggia seguendo il boato delle onde che s’infrangevano su immense distese di sassi che rotolavano e sbattevano fra loro seguendo il ritmo della marea.
I ciottoli grigi che la ricoprivano presentavano concrezioni biancastre che sembrano geroglifici o disegni di gabbiani ad ali spiegate, era un luogo carico di una selvaggia desolazione.
Nel nulla apparvero due anacronistici cercatori d’oro che sembravano uscire dai romanzi di John Steinbeck o Jack London. Dopo aver spostato con le pale cumuli di pietre, con i loro consunti strumenti artigianali setacciavano la sabbia rossastra. Con un misto di discrezione e orgoglio ci confessarono che in una giornata di lavoro riuscivano a racimolare polvere equivalente a 20, 30 dollari. Erano felici così, non volevano fare quello che facevano tutti, pescare, loro preferivano la terra alle grandi onde e noi continuammo la nostra ricerca.
La vettura noleggiata era la meno indicata per quelle strade sconnesse ma avevamo trovato solo quella.
Lo sterrato per raggiungere la spiaggia successiva s’inerpicava e scendeva in uno stupendo ambiente selvaggio fatto di alberi incurvati da secoli di vento, prati verdi che profumavano di muschio, coste lontane che ribollivano di candide onde, boschi scuri aggrappati alle sommità delle colline, ma in mezzo a quella meraviglia, la macchina continuava a slittare e a scartare sul fondo ricoperto da un infido strato di fango.
Davanti a noi c’era una lunga discesa con larghe pozze di fango.
– Marco – dissi sorreggendomi alla portiera – penso sia meglio parcheggiare la macchina e proseguire a piedi, se scendiamo ancora su questo sentiero, non riusciremo più a risalire.
– Provo ancora un po’ e poi ci fermiamo.
Le ultime parole famose.
Dopo vari e inutili tentativi, dopo esserci inzaccherati di fango per spingere la macchina fuori dal terreno melmoso, mentre ormai stava calando il sole, decidemmo di abbandonare la macchina e iniziammo il cammino per rientrare in paese.
Erano circa 14 chilometri, circa tre ore, saremmo arrivati con il buio, ma la luna illuminava la strada, non pioveva e il profumo d’erba, bosco e salmastro si mischiavano in una fragranza tonificante, così iniziamo il percorso di buon passo, ma arrivarono raffiche violente e cumuli scuri di nuvole e i richiami degli uccelli notturni a dare un tocco più sinistro all’atmosfera, poi a un paio di curve davanti da noi, udimmo un minaccioso latrare di cani.
Senza dire una parola, ognuno di noi afferrò un bastone.
Dopo un’ora di cammino in tensione, ma senza incontri spiacevoli, intravedemmo una piccola luce e un filo di fumo, c’era una casa solitaria.
Nella casa c’erano tre anziani che ci accolsero in cucina, l’atmosfera era semplice, c’era una stufa al centro e loro erano seduti intorno, l’unica fioca lampadina rischiarava in un cono di luce la donna, il marito e il fratello di lei.
La donna ci invitò a bere il mate con loro.
La conversazione era lenta, iniziammo a parlare del mare, della strada e poi raccontammo della nostra macchina bloccata nel fango a causa del nostro desiderio di proseguire per vedere la maestosità del Pacifico.
– Dovete andare a El Muelle de las Almas, per ascoltare il racconto del mare. Lo spirito di Chiloé è lì, non nelle onde.
Disse uno dei due vecchi continuando a guardare il fuoco.
Aspettai che aggiungesse qualcosa, ma non disse altro.
Poi la donna telefonò a qualcuno e si accordò con lui per venirci a prendere, ci avrebbero riportati in paese.
– Manuel domani si occuperà anche di tirare fuori dal fango la vostra macchina.
Dopo un’altra ora di scarne parole, sorsate di mate e lunghi silenzi, udimmo il rumore di un motore. Ringraziammo i tre vecchi che rimasero accanto al fuoco nella stessa posizione in cui li avevamo trovati.
Manuel e suo figlio, un ragazzone imponente infagottato in una maglietta aderente che lo faceva apparire ancora più grosso, ci fecero salire su un vecchio pick-up rosso e ci riportarono in albergo.
Appuntamento al mattino successivo.
Il giorno dopo la nostra macchina era sempre lì, in fondo alla discesa dove l’avevamo lasciata, ma i due salvatori si resero conto che nella scocca non c’era un gancio per il traino, padre e figlio guardarono con una punta di disprezzo quella vettura cittadina e, dopo aver parlato fra loro, ci dissero di aspettarli e dopo mezz’ora si ripresentano a piedi trascinando una coppia di grossi buoi.
Dopo aver agganciato un montante del paraurti con una fascia di tela al giogo dei bovini, la macchina venne facilmente trascinata fuori dal fango grazie alla dolce progressione dei passi dei due placidi animali, senza le violente trazioni meccaniche che avrebbero staccato il muso della fragile vettura.
Nessun’altra soluzione sarebbe stata migliore di quella.
A quel punto, dopo aver liberato la macchina e ringraziato i due salvatori, parcheggiammo in una zona pianeggiante e iniziammo il nuovo cammino, questa volta verso “Il molo delle anime”.
Un cartello sbilenco indicava uno stretto sentiero fra sassi e arbusti.
Prati verdi da attraversare, macchie di boschi fra i quali penetrare, colline da scavallare e sullo sfondo di quel paesaggio il grande mare grigio, solcato da onde lunghe e staccate, non le onde che ci saremmo aspettati, non onde alte e violente che si accavallano per tormentare la costa, ma marosi che si distendono come righe regolari per accarezzare dolcemente la superficie del mare.
In lontananza c’era una passerella di legno incurvata in una sorta di S che si protendeva verso la baia, verso il nulla, verso il cielo, era il molo delle anime.
Secondo la religione Mapuche esiste un’anima universale, la chiamano Pu-Am, è da lì che nascono ed è lì che convergono alla fine di ogni esistenza le anime di tutti gli esseri viventi, animali o vegetali. Quando un essere umano viene concepito, dal Pu-Am si distacca una singola anima, l’Am che continua a far parte del grande spirito universale, ma quando un uomo o una donna cessa di vivere, in attesa di ricongiungersi al Pu-Am quel fragile spirito solitario vaga in uno stato leggero e pericoloso chiamato Pillü e in quella condizione potrebbe venire facilemnete catturato dagli spiriti maligni. Quella passerella protesa verso il mare, verso il cielo e l’infinito è il luogo di attesa dell’imbarco, ma l’anima dovrà portare un’offerta, potrà essere un semplice sasso o una pietra preziosa e poi dovrà invocare il barcaiolo, il “Balsero”, ma il suo arrivo non è mai scontato.
Quello è il luogo dell’attesa.
Laggiù, su quel molo di legno sull’isola di Chiloé costruito da un artista cileno per ricordare quell’antica tradizione Mapuche, sembra di entrare fra le pagine della Divina Commedia, dove un traghettatore indios sostituisce Caronte per tornare all’anima universale, ma se l’anima sarà quella di marinaio disperso nel mare, bisognerà invece invocare la Pincoya, la creatura femminile soprannaturale, fata o sirena che forse lo condurrà a veleggiare per sempre sul Caleuche.
In quel luogo imprevisto, su quella passerella di legno il mare mi ha raccontato una storia che mi ha parlato di Dante, della Pincoya e del leggendario Caleuche e dell’attesa di un viaggio ulteriore.
Scrittura e viaggio raccontano un percorso.