testo e foto di Palma Navarrino
Marzo 2019: da Nukus a Moynaq, in viaggio attraverso il Karakalpakstan, la Terra dei Colbacchi Neri, antico segmento della leggendaria Via della Seta e ora simbolo di uno dei peggiori disastri ambientali di sempre: il prosciugamento del Lago Aral, un tempo tra i più importanti mari interni del mondo.
Questa terra, originariamente ospitale e pescosa, meta di pastori e pescatori nomadi o seminomadi già a partire dal VI secolo a.C., viene abitata successivamente dalle popolazioni di origine turca e dagli Unni Eftaliti, e in seguito alle invasioni mongole del XIII secolo diventa sede degli imperi caucasici fino a quando, nel 1873, viene ceduta dal khanato di Khiva all’Unione Sovietica. Nel 1936 il territorio del Karakalpakstan viene annesso all’Uzbekistan (fino al 1991 paese dell’URSS), di cui fa tuttora parte con statuto di Repubblica Autonoma.
Il Lago Aral costituiva ancora in quel momento la principale fonte di ricchezza e sviluppo della regione. Steso sui territori a cavallo dell’Uzbekistan e del Kazakistan, il lago è in realtà un mare interno di origine oceanica, salato e originariamente sede di numerose specie endemiche di pesce che alimentavano un fiorente mercato ittico e un notevole indotto industriale.
Durante il periodo sovietico inizia una massiccia opera di deviazione delle acque dei principali immissari del Lago Aral – l’Amu Darya a Sud e il Syr Darya a Nord – al fine di irrigare le nascenti vaste coltivazioni di cotone volute dal regime: il destino del lago è segnato. Con esso, tutta la regione si avvia inesorabilmente verso un futuro di desertificazione e di inquinamento, accelerato da maldestri e spesso scellerati tentativi di bonifica. Nonostante recenti operazioni di recupero la superficie del Lago Aral misura attualmente circa un decimo di quella dei primi anni Sessanta, e scheletri rugginosi di vecchie navi spiaggiate sono oggi la testimonianza muta dello scempio ecologico che ha annientato questo prezioso lago e le terre che un tempo ne ospitavano le acque.
Nukus, capitale ansiosa di oltrepassare l’impronta sovietica, e Moynaq, ex fiorente città-porto senza più acqua e in cerca di una riconversione turistica di quelle stesse terre desolate, raccontano di un Karakalpakstan desideroso di ricostruirsi sulle ceneri di un passato dall’eredità controversa, di una terra tuttora culla di etnie e scritture differenti – arabo-persiana, cirillica, latina – in cerca di riscatto e di recupero di una propria identità.