testo di Giovanni Luigi Panzetta
foto di Giuseppe Olivieri
Per non essere provinciali
occorre possedere un villaggio vivente nella memoria,
a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo.
Ernesto De Martino
La scorsa estate il viaggio di Paolo Rumiz ha riportato alla nostra attenzione la via Appia, prima strada di Roma e madre di tutte le strade europee. Seguendo il viaggio dello scrittore triestino, molti hanno conosciuto per la prima volta la densa storia delle aree interne del Centro e del Sud Italia, scoprendo paesaggi, storie, genti di bellezza profonda e assoluta.
Ma c’è un’altra strada, nascosta e dimenticata, che andava dalla Maiella al Pollino e che dal III sec. d.C. ha sedimentato lungo la propria direttrice un intero mondo di scambi, relazioni, antropologie, saperi. Si chiamò in epoca romana via Herculea e la sua storia esprime la metafora di un intervento realizzato per aiutare le Aree Interne fuori dalla grande viabilità e favorire il trasporto ai mercati dei Roma dei prodotti agricoli (la salsiccia lucana, l’aglianico del Vulture, i formaggi e il grano pugliese) delle grandi proprietà agricole di Senatori, Cavalieri e Imperiali posizionati lungo il tracciato.
La differenza fondamentale con la più famosa via romana, l’Appia, ben descritta da Rumiz, è che questa attraversava i territori appena conquistati dai Romani, lasciando spesso a monte i vecchi centri sanniti mentre l’Herculea, che nasce sei secoli dopo, con un territorio saldamente domato, questi territori li univa, diventando la base fondamentale d’ interscambio economico-culturale con i popoli delle Aree Interne che venivano da essa congiunti.
L’Herculea fu realizzata su un tracciato antico preromano che partiva dal Centro Italia (Aufidena, oggi corrisponde a un sito fra il comune di Castel di Sangro e Alfedena moderna) e percorreva circa 400 chilometri di dorsale appenninica, seguendo per ben circa 200 km il tratturo Pescasseroli-Candela. Giunta a Grumentum, diramava in due direzioni: una per Heraclea (Policoro) e l’altra, dopo il raccordo alla via Popilia, che collegava Capua con Reghio (odierna Reggio Calabria).
Il nome le fu dato dal soprannome di Massimiano (imperatore insieme a Diocleziano), ed è documentato da un numeroso gruppo di miliari.
Quando finì l’impero romano (476 d.C.) la strada perse la funzione primaria che aveva, con alterne vicende, visto la frantumazione politica che si ebbe nel Medioevo, ma rimase in uso come tracciato di transumanza ripreso prima da Federico II e poi, dagli Aragonesi che , nel 1447 riordinarono e legalizzarono la Transumanza con la creazione della Dogana delle Pecore di Foggia. Questa istituzione aveva un regime giuridico autonomo all’interno del Regno di Napoli e ne beneficiavano tutti i sudditi che praticavano la transumanza ed avessero registrato almeno venti pecore.
La perpetuazione dell’Herculea finì del tutto nell’Ottocento quando la Transumanza fu abolita con l’arrivo sul trono di Napoli del Francesi (1806). Successivamente fu ribadita dai Piemontesi che, conquistato il Regno Napoletano, provvidero ad espropriare le terre della Transumanza, alcuni beni ecclesiastici e li annessero ai beni Demaniali per riassegnarli ad uso agricolo intensivo ai sostenitori liberali che avevano favorito l’Unità e anche ai nullatenenti contadini, che affrancati da feudalesimo, si trovarono ad aver acquisito maggior libertà ma senza nessuna risorsa per la sopravvivenza. In questa distribuzione del patrimonio Demaniale comune, le cui competenze erano esclusività dei Consigli Comunali, i cui rappresentanti appartenevano alle famiglie più altolocate (ricordiamo che allora si votava per censo e che solo il due per cento erano quelli che ne avevano la facoltà) i Liberali, i voltagabbana, i Baroni e i grandi proprietari di pecore che erano rappresentati alla gestione del potere locale, si assegnarono i terreni più appetibili, diventando la nuova borghesia agraria e fedeli sostenitori del Nuovo Regno. I contadini, impoveriti ulteriormente per la perdita degli usi civici su proprietà assegnate a nuovi padroni e impossibilitati a usufruire delle pur magre risorse a loro concesse dall’economia della transumanza, più disperati che mai, saranno costretti al brigantaggio prima, e poi, sconfitti, costretti all’emigrazione. Il problema della Terra ai contadini rimase per un secolo il fondamento del Meridionalismo e si protrarrà fino a metà del secolo scorso. Sarà solo allora che quel che restava dell’Herculea che era sopravvissuta grazie alla transumanza non legalizzata, che ancora veniva praticata (circa seicentomila pecore che fino al secondo Dopoguerra ancora si spostavano dall’Abruzzo al Tavoliere) perderà anche questo ruolo marginale e, man mano, si dissolverà nei nuovi campi di grano che ridisegneranno il paesaggio. Le aree da essa attraversate, eternamente di “mezzo” diventeranno di “confine” (con la nuova divisione amministrativa unitaria) e subentrerà un vuoto che i governi unitari non riusciranno mai a riempire.
Le tracce geografiche della strada oggi sono perdute, ma lungo la sua direttrice, oltre a preziosi ritrovamenti litici e altri reperti archeologici, permane un deposito antropologico di eccezionale cultura immateriale.
Giovanni Luigi Panzetta, irpino di Villanova del Battista (AV), ha sessantotto anni e da venti vive a Berlino. In Italia è stato un architetto, ma oggi fa il ristoratore nella capitale tedesca, offrendo nella sua “Locanda” la cucina della transumanza con un omaggio a Napoli, dove ha vissuto circa 30 anni. È membro della Università Popolare dell’Irpinia, e svolge da anni un appassionato lavoro di ricerca tramite l’Associazione VIA HERCULEA DAUNA IRPINA con sede ad Accadia della quale è presidente.
Giuseppe Olivieri, 58 anni, è nato e vive a Gravina in Puglia, terra di confine con la Lucania. Educatore presso una comunità riabilitativa per pazienti psichiatrici da 35 anni, ama fotografare la luce, i colori, le curve, le suggestioni della sua terra.