Di Stefania Ressa. Le foto sono state scattate da Paola Ressa.
Vincenzo ha 63 anni, ogni mattina si sveglia intorno alle 6 e trascorre il tempo tra casse di Raffo e cruciverba. “Almeno mi passa la giornata – dice abbozzando un sorriso sdentato – e penso meno a questa parte della città che bisognerebbe radere al suolo e restaurare.”
Siamo in Città vecchia, o se preferite nel Borgo antico di Taranto, precisamente in via di Mezzo, puntellata da strutture traballanti e dimore abbandonate. A riempire il vuoto delle case e degli edifici che a stento si reggono in piedi, a leccare le ferite di una città martoriata e profondamente svuotata, ci pensano gli abitanti. Sì, perché la parte “vecchia” di Taranto è fatta prima di tutto di persone e di storie.
La prima che voglio raccontarvi è quella del Panificio Peluso. La facciata di questo locale storico del 1700 al civico 244 di via di Mezzo è diversa da quelle in cui inciampi girando per Taranto Vecchia. Pare quasi di essere in Grecia; a dominare, non a caso, sono il bianco e il celeste. Nella serie di fotografie in bianco e nero sulle piastrelle, intravedo un celebre personaggio tarantino, Marc Poll, in posa in una Taranto oramai scomparsa.
Franco, l’attuale proprietario, mi racconta che questo forno (sì, a lui piace chiamarlo “forno” e non panificio) era la meta di chi un tempo faceva il pane a casa per poi infornarlo lì. “Un giorno mio padre – svela Franco – riuscì ad incassare soltanto una lira e per il nervosismo la gettò nel forno. Bei tempi però. All’epoca via di Mezzo era strettissima, con i vicoli che portavano al mare. Quello che oggi resta, invece, è una serie di palazzi lasciati in stato di abbandono. E pensare che qui – precisa, mostrandomi quello che oggi è solo un deposito umidiccio e dall’odore acre – vivevano anche 10 persone tutte insieme”.
Saluto il simpatico fornaio per dirigermi verso Largo Blasi, un angolo caratteristico intagliato tra palazzi storici purtroppo consumati. E’ come se, improvvisamente, malgrado ogni pertugio della città vecchia suggerisca desolazione per lo stato in cui versa, il tempo si sia fermato.
Qualche scatto e via, verso le barche dei pescatori. Uccio, Franco e Lello sono troppo impegnati per degnarmi della loro attenzione. Tutto nella norma, penso. La diffidenza iniziale, seppur comprensibile, è palese ma non impiego troppo tempo a convincerli che sono a caccia di storie. Di esperienze. Quelle vere, curiose, strazianti volendo. Quelle che torni a casa soddisfatto e felice per aver incrociato, anche solo per qualche ora, altri destini.
Uccio, ci osserva. I suoi enormi occhi blu parlano per lui. Dopo un po’ di casino iniziale, ci racconta che prima di ritrovarsi in una realtà farcita da menefreghismo e disagio – “Ché a Taranto, aggiunge l’amico Franco, bisogna cambiare il cervello; è la cultura che manca” – pescava le cozze pelose. E il clima che si respirava era diverso. Migliore, semplicemente. Senza quella sensazione lancinante di perenne abbandono.
La stessa che denuncia Peppe in via Duomo, a due passi dalla Cattedrale di San Cataldo. Non appena ci vede ci osserva attentamente, nonostante pare abbia occhi solo per il suo panino con prosciutto crudo che “stuta la luce” (cioè, buonissimo), come si dice dalle nostre parti. Non accorgersi di lui è impossibile: a precederlo è la musica a tutto volume di Radio Taranto.
E pensare che, in barba a chi crede che trascorra le sue giornate parcheggiato in mezzo alla strada sulla sua sedia arancione, Peppe in realtà ha un talento: inserire le conchiglie nelle bottiglie di vetro che vende insieme alla pila di oggetti usati con i quali ha addobbato il suo personalissimo mercatino.
“Non è mica un gioco da ragazzi eh – tiene a sottolineare – non vedi che opera d’arte. Sce agghia fa altrimenti, che si sta meglio al cimitero che qui. Almeno lì parli cu l’ cadaver. E quando vedo passare le guide turistiche? La casa dei baroni di qua, la casa del conte di là e l’palazz scadenti? Di quelli non si dice nulla? Prima non era così. C’era l’elettricista, il tabacchino dove prendevamo le sigarette sfuse, gli scarpari e na scamunera di bambini che giocavano nei vicoli. Ogni giorno era un ‘sciamm abbasce a u’marrot’, la scalinata che portava in via di Mezzo”.
“Ah, sai cosa facevamo anche? Mettevamo i fichi d’india in una coppa con dell’acqua e a chi incappava u’ zipper pagava.”
A due passi da Peppe, in fondo ad una stradina, Cataldo – ex fabbro – sta tagliando il pane per i gabbiani, un mantra quotidiano che lo distoglie dalla noia delle giornate. Lo saluto velocemente, giusto per non disturbarlo più di tanto, e proseguo verso via San Martino.
La strada brulica di gente. Di fronte ad un portone bianco con un rustico campanello scritto a mano c’è Chiara: capelli nero corvino e due sfere verdi, intense. Chiara ha 55 anni e 4 figli che vivono tra Taranto e il quartiere Tamburi, sì quello che affaccia sull’Ilva.
“Abito qui da una vita – racconta – e sarebbe bello se qualcuno ristrutturasse questi palazzi”. E’ timida Chiara di fronte all’obiettivo, qualcuno la prende addirittura in giro mentre lei è in posa dicendole che le foto che Paola le sta scattando – e che mi sta accompagnando in questa avventura tra le anime della Taranto antica – finiranno su Facebook. “Ehi niente ‘feisbuk’ p’favor.”
La rassicuro e le stringo la mano ripromettendomi di andarla a trovare qualora dovessi ripassare di là. Qualora dovessi perdermi, di nuovo, in quella Taranto sconosciuta e spesso invisibile. Quella Taranto fatta di persone, di vite che si incrociano e che, forse, hanno bisogno solo di gentilezza.
Le foto sono state scattate da Paola Ressa.
Stefania Ressa
Giornalista e Social Media addicted. Amo la mia città, Taranto, anche se a volte la prenderei a sberle. Ho l’anima di una vagabonda, mi piace viaggiare tra le storie di chi inciampa sulla mia strada e raccontarle. Irrequieta dalla nascita.