Foto di Alessandro Colazzo | Testo di Emanuela Pisicchio

LATTESA-14

Il reportage si sviluppa intorno alla raccolta delle angurie, che avviene ogni anno nel Sud Italia, nel paese di Nardò (Lecce), portato alla cronaca per il primo sciopero organizzato e autogestito da lavoratori extracomunitari in Italia.

Ogni anno nel mese di Giugno inizia la raccolta delle angurie d.o.p. e i braccianti stranieri arrivano da ogni parte d’Italia e dai paesi del Mediterraneo per lavorare intensamente nel periodo estivo, per poi spostarsi per altre raccolte. La loro scarsa condizione economica li porta ad accamparsi spesso in casolari rurali abbandonati e nella peggiore delle condizioni in aperta campagna, per trovarsi più vicini ai punti di ‘chiamata ai campi’. Per far fronte all’emergenza il Comune  allestisce delle aree camper fuori dal paese; ma queste non sempre rispondono alle reali esigenze dei lavoratori, costretti a percorrere lunghi tragitti a piedi, per arrivare dentro al paese.  

Le immagini documentano il “non luogo” (così come viene definito da Marc Augè) e l’attesa, che a volte è anche di giorni, tra una chiamata e l’altra.

 

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La notte è arrivata prima, oggi. Mi è entrata negli occhi prima che potessi guardare un’ultima volta l’orizzonte.

Amado al mio fianco non la smette di contare. Per ogni ulivo conta quattro persone e va avanti così. Non so mai quando smette di contare. Ormai anche gli altri non ci fanno più caso, anche i nuovi arrivati seguono la conta. E si rassicurano che qualcuno abbia tutto sotto controllo, che da qualche parte sia tutto a norma. Devono solo trovare un albero libero. La terra è informe e secca, si accorgeranno subito di aver bisogno di cartoni per la notte.

Le foglie d’ulivo per terra pungono le braccia e le caviglie. Le formiche ti percorrono il corpo. Appena steso, non te ne accorgi, ma poi le senti una ad una, come se spuntassero dal suolo lentamente. Chi riesce a comprare un materasso, i cartoni se li conserva tra i rami degli alberi, qui non si può mai sapere. Il camioncino dei materassi arriva ogni settimana. Sono presi dalla spazzatura, molti sono bagnati e in ogni caso si bagnano comunque, ogni notte. E se riesci a guadagnartene uno, non puoi certo scegliere, il migliore appartiene al destino. Ma almeno i vestiti restano puliti.

Se apri gli occhi e sei in grado di distinguere ogni singola foglia che pende sulla tua testa, allora puoi alzarti. L’orologio al mio polso segna le cinque.

Il furgone passa presto e molti sono rimasti in piedi tutta la notte ad aspettarlo, mentre altri sono appena arrivati e si riversano sulla strada, in direzione del bar. Non parla mai nessuno al mattino.

Ho rivoltato la mia maglietta. Da dentro sembra migliore.

Il fresco che precede l’alba penetra nelle ossa e scaccia il torpore dalle gambe. Il primo giorno ho visto gli altri arrotolare i materassi e incastrarli tra i rami, lontano da terra. Il secondo giorno ho capito perché: se sei fortunato e vieni scelto, resteranno sotto al sole tutto il giorno, poi arriveranno i cani e ci dormiranno sopra.

Al mattino non si parla. Si aspetta.

Sul ciglio della strada non c’è posto per tutti. Se arrivi primo, ti prendi il posto migliore, tra terra e asfalto, il più pericoloso. È una strada dritta, che trafigge l’orizzonte. E quando il sole non è alto, la nostra sagoma si confonde con quella degli alberi. Restiamo in piedi, a loro non piace vederti rialzare. A loro non piace intuire la tua stanchezza. Scelgono chi resta saldo sulle proprie gambe, chi non alterna il peso da una gamba all’altra, chi non respira forte, chi non è già sudato.

Il furgone rallenta ma non si ferma mai. Dal finestrino un braccio punta il suo dito, chi è indicato deve saltare su. Il furgone non si ferma, deve saltare su al volo. Guardo il dito scorrere sulle teste dei miei compagni. Trattengo le palpebre, aspetto di vederlo sulla mia fronte. Le chiudo quando il furgone è già via. Oggi mi tocca aspettare. Torno agli ulivi.

Chi torna agli ulivi, cammina lento. Trascina il passo. Calpesta le ombre degli alberi, a casaccio. Tra poco non sarà più possibile aspettare al sole. Ancora poche ore e si dovrà inseguire l’ombra. Il sole ruba l’acqua dai nostri corpi, poi dalle nostre bottiglie.

La strada per la città è lunga. Lontana dagli alberi. Devi seguire l’asfalto, senza mai dare le spalle alle auto. Compro una cassa d’acqua e del caffè. Al campo è arrivata una macchinetta per fare il caffè all’italiana. Da qualche giorno ci sono anche sedie di plastica e tendoni. Chi conosce la strada per la discarica più vicina, fa continui viaggi. In pochi giorni abbiamo arredato la nostra attesa, rimediato due divani in buono stato, tre tavolini, sedici sedie di plastica, travi di legno.

La mattina, chi non viene scelto sulla strada, resta a lavorare per tutti.

A pochi passi dall’ultima fila di alberi prima della strada, c’è un casale a due piani, abbandonato. Nel giro di una notte è arrivata la corrente elettrica, hanno portato un frigorifero, una televisione, un fornello a gas, cassette di plastica riempite di piatti e posate, vestiti e puttane: sembra si debba rimanere qui a lungo.

Gli ulivi devono diventare casa.

Si lavora insieme. Non si sa per cosa. Tutto il necessario per la cucina è sistemato nel casale, nella prima stanza di cemento a tre pareti. Alle spalle una scala in muratura conduce al piano superiore. Non si vedono donne nel campo, ma tutti sanno che le hanno messe lassù, in una stanza senza porte al piano superiore. Nessuno le vede arrivare. Sulla scala qualcuno controlla chi sale e chi scende.

Nessuno fa domande: a nessuno interessano risposte.

Chi ha un coltello diventa subito il più conosciuto. E il più temuto. Fatì fa in modo che tutti vedano il suo coltello. Ha cominciato a dirigere i lavori per organizzare lo spazio destinato alla cucina. È lui il caposquadra. È alto e largo di spalle, gli occhi sempre stretti, dopo gli ultimi lavori nei campi ha cominciato a zoppicare, quelli dei furgoni se ne sono accorti, così è da un po’ che non viene scelto. Ormai la mattina non si presenta neanche sulla strada. Cucina per chi può permetterselo e ha un’agenda nera su cui segna i debiti di tutti. Così tutti possono mangiare. Ma devono pagare, prima o poi. Oggi l’ho visto allontanarsi dal campo prima dell’alba, superare il casale e confondersi tra gli ulivi. È tornato quando il sole picchiava sulla testa, seguito da una pecora che teneva per il collo con una corda di plastica. Superato il casale, ha scelto un albero senza chioma. La bestia ha emesso un gemito come di un uomo che piange, ma nessuno ci ha fatto caso. Pochi istanti dopo il suo corpo pende dall’albero a testa in giù e Fati ne è immerso fino alle spalle e raccoglie le interiora in una teglia di metallo. Ogni tanto si ferma, guarda in alto, dice qualcosa. Canta. La radio nel casale è accesa e la musica tunisina raggiunge ogni albero. L’odore di sangue e carne scaldati dal sole si mescola al marcio delle olive calpestate. Ma stasera, chi torna dalla strada, avrà di che riempirsi lo stomaco.

Il furgone va via lasciando stridere le gomme sull’asfalto. La giornata è finita, i compagni ritornano dal campo.

Il corpo bruciato dal sole si fa sentire in ogni passo.

La pelle viene via dalla fronte, dal naso, dai lati della bocca, dalle spalle e dal collo del piede. La schiena è contratta, non si distende, il dolore piega le gambe, ma non permette di sedersi. Le unghie sono nere. Molte cadranno. Un’anguria può arrivare a pesare più di 40 kg e al mattino la buccia è bagnata, scivolosa, senza appigli. Le mani si aprono con forza, si dilatano al massimo per tentare di coprire più superficie possibile dello Tsamma. Le unghie non devono scalfire il suo involucro. E per non lasciare che scivoli, il corpo è disposto a contrarre i muscoli della mano in crampi ostinati. Per tutta la durata della giornata, le mani non smettono di contrarsi. Le dita tirano verso l’esterno, lontano dal corpo, sembra possano staccarsi. Ma i crampi ti ricordano che è tutto lì, il muscolo ti tiene ancorato al corpo e alla testa. E non si ha il tempo di pensare. Si schiaccia il muscolo che tira. Si schiaccia il dolore con altro dolore. Il verde riempie gli occhi. E i movimenti sono compulsivi, in un’accelerazione che una volta cominciata sai di non poter rallentare. Le mani diventano ruvide, si spaccano. E la linea della vita è un solco che taglia in due il palmo. A fine giornata non riconosco più le mie mani. Intorno al pollice, le piaghe d’acqua si rompono, bruciano e seccano durante la notte. Ma durante il giorno, la pelle ruvida non lascia sfuggire lo tsamma. A fine giornata le piaghe sono di nuovo piene d’acqua. È un ciclo di dolore utile. Rende il lavoro più rapido. E loro se ne accorgono.

Appena i compagni ritornano dal campo, il muezzin chiama la preghiera.

Il luogo per la pregare è segnato duecento metri più in là, oltre la prima fila di alberi. Abbiamo dato ognuno qualcosa, chi un pezzo di cartone, chi un tappeto. Prima di pregare ci purifichiamo con la terra, la strofiniamo su braccia, piedi e viso. L’acqua è poca. Da quando è arrivato il muezzin, gli animi sono più tranquilli. Ma non preghiamo più come facevamo al nostro paese. Durante il lavoro al mattino è vietato fermarsi. E se resti agli ulivi, nel pomeriggio, devi fare quello che ordina il capogruppo. Non preghiamo più come prima.

Quando finisce la preghiera, Fatì ha già sistemato il cous-cous e la carne nei piatti. Facciamo la fila e compriamo la cena. Il nome di chi non può pagare viene segnato sull’agenda nera.

Nessuno mangia da solo.

Per terra, qualcuno ha messo dei piatti con dell’anguria tagliata a pezzi. Chi passa da lì, si abbassa e ne prende uno. E penso sempre che è strano il modo in cui si chiudono le dita sulla polpa rossa, la sera. Osservo mani come le mie contrarsi, mantenendo la memoria del frutto pesante, e sorprendersi ogni volta nella leggerezza del riposo.

E sorrido quando nella fretta, la sera, il gesto si trasforma in un inchino. Ed è come un saluto, un arrivederci. Un grazie. Un prego. Fatto di mani. E mi chiedo come possano farsi così piccole la sera. E ho gli occhi troppo bassi per lasciare che si accorgano della notte.

La notte è arrivata prima, oggi.

Per saperne di più: http://www.sacolab.it/