Proponiamo la versione integrale dell’articolo “L’attimo fuggente del lampredotto” dello scrittore inglese Matthew Licht pubblicato sul numero 8 di Erodoto108 “Elogio del cibo”.
Testo di Matthew Licht, foto di Giovanni Breschi
Non esiste cibo più fiorentino di un panino col lampredotto. Chi conosce un po’ Firenze sa cosa questo comporta. Bisogna stare scomodi per gustarlo a modo. Non ci va un vino pregiato, né una tovaglia di lino, né un sofisticato schema d’illuminazione. Meglio consumare il panino all’aperto, in un generale grigiore piovigginoso. Meglio se c’è casino attorno, pigia pigia, se prendi qualche gomitata alle costole mentre chiedi i condimenti desiderati al trippaio. Ti devi praticamente macchiare i vestiti. Un bel pataccone arancione, felice ricordo di un pranzo oltremodo appagante.
Chi mangerebbe un panino col lampredotto a cena? Nessuno. Perché i trippai chiudono presto. Perché si devono alzare presto.
Mario, meglio conosciuto come il Trippaio di Porta Romana, considerato Il Migliore da intenditori ultra-fedeli, è mattiniero praticamente da sempre. Ha iniziato a lavorare ai macelli comunali a tredici anni. Finito il turno al mattatoio, bazzicava le botteghe degli artigiani nel quartiere di San Frediano. Tra le altre mansioni, svuotava tinozze di cianuro per un argentiere. Ha capito presto che il lavoro non solo stanca, può nuocere gravemente alla salute, addirittura uccidere. Notò al mattatoio che i suoi colleghi neanche quarantenni erano già stronchi: troppe mattine a trasportare quarti di bue sulla groppa, troppe ore ad inalare brina ghiacciata nelle gigantesche celle frigorifere. Decise di cambiare mestiere.
Mario, di origini emiliane ma fiorentino d’adozione, emana vibrazioni generose, accoglienti. Sua madre, cuoca, lo iniziò ai segreti culinari. Armato della sua dimestichezza con le carni, dell’arte nel cuocere le frattaglie meno costose e del proporle a una clientela ipercritica, Mario comprò un Apecar e l’ha attrezzato a tripperia. Che cos’ha, che cosa fa Marione, per essere ritenuto speciale, per mantenere fedelissimi i suoi devoti gastronauti? Non congela mai nulla. Il brodo lo fa fresco, iniziando da zero, tutte le mattine. Iniziare da zero è il segreto. Oppure è zero, il segreto. Zero segreto può significare un ottimo panino col lampredotto. Da quando qualche genio ha inventato la bustina anti-patacche, l’estetica del panino col lampredotto è cambiata. Forse è cambiata anche la consistenza del panino bagnato. Ma non si torna indietro, e poi si risparmia in tintoria.
Chiedo a Mario se a volte i clienti gli danno consigli, se accetta suggerimenti. Certo certo, ma alla fine il lampredotto e tutto il resto deve venire come vuole lui. Parla bene, Mario, ma non è per nulla chiacchierone. Mentre lavora, mentre sminuzza il lampredotto, è concentrato, taciturno, quasi burbero. Ma è chiaro che nulla sfugge a quegli occhi celesti infossati nel volto da imperatore romano. Il posto è suo. Se un avventore non fosse soddisfatto, se ne accorgerebbe, e vorrebbe anche sapere perché. Ma non credo sia mai successo.
La moglie di Mario lavora al suo fianco. Lui si occupa esclusivamente del classico panino, e dei bolliti. Lei è incaricata delle vaschette di trippa alla fiorentina, e del lampredotto condito in vari modi: inzimino, porri, patate, fagioli. Grande specialità della casa è lo stracotto di guancia, che viene servito solo il giovedì, se mi ricordo bene. La moglie di Mario ha gli occhi dolci, un’espressione di grande pazienza e benevolenza. Non mi va di chiederle se in casa cucina lei, o se le piace il lampredotto.
A Mario piace, ma non lo mangia spesso. Gli chiedo quale sia il suo piatto preferito in assoluto. Sorride nostalgico. C’era, in via de’ Serragli, un roventinaio. L’insegna, una tavola di legno che basculava nel vento, raffigurava un maiale che si sbudellava stile Hara-kiri con un coltellone da macellaio. “Mi uccido per voi” erano le ultime parole di questo suino altruista e generoso. Me lo ricordo; ci andai una volta. Il roventino è, o meglio era, una crosta tonda, un pancake di sangue, vino e spezie (tra le quali l’esotica cannella) cotto alla piastra, piegata in quattro, ricoperto di formaggio grattugiato e infilato in un panino. Il paiolo ricordava i film horror. Il roventinaio aveva l’aspetto di un vampiro sazio e gonfio. Decisamente non impazii per quel panino. Avendo soddisfatto la curiosità, non ritornai. Non esiste più, il roventino tipicamente fiorentino. O forse sì, ho sentito di una versione cinese che viene servita a Sesto Fiorentino. Ma a Mario brillano gli occhi quando ricorda la specialità del friggitore di via de’ Serragli: il panino di salsiccia fritta con crocchette di patata. La cosa più buona del mondo, anche se faceva tanto male. Non c’è più nemmeno quel friggitore.
Si dice che pizza e birra siano come il sesso: anche quando non sono buonissime, sono sempre abbastanza buone. Questa massima non regge la prova del panino col lampredotto. Le differenze tra un panino col lampredotto qualsiasi e uno dal trippaio di Porta Romana sono sottili, forse inafferrabili. Forse la voglia di lampredotto dipende dall’omeopatia. Lo stomaco riconosce e reclama l’ottima trippa.
Lo scrittore Niccolò Vivarelli, fiorentino di nascita, e cresciuto nella stessa casa dove abitava Mario il Trippaio in gioventù, ne fa menzione nel suo nostalgico giallo, Slalom:
Seduto dietro Giuliano con i piedi sulle pedanine dello Scarabeo Leandro gustava la sensazione di farsi portare. Lungo il viale dei Colli guardava le chiome rade dei platani che tremolavano contro il cielo tungsteno, i mucchi di foglie fradice per terra, e per un attimo si sentì bambino ma anche come quando si stonava prima che, anni fa, le canne cominciassero a mandarlo in paranoia. Aveva fame. Dal trippaio di Porta Romana si fecero incartare due panini col lampredotto, presero due Coke, e se le portarono nei giardini delle scuderie reali sotto al Bobolino. Sulle panchine verdi, una di fronte all’altra, per un po’ non dissero nulla, presi ad addentare il pane croccante bagnato nel brodo pepato di quelle vaporose viscere.
Peccano, i personaggi. Accompagano i panini con la coca, e li fanno incartare. Si allontanano, seppure di pochi passi, per gustarsi la leccornia. Ma tant’è. La sensazione è quella. Vaporosa è la parola giusta. Ci azzeccano, invece, col silenzio. Prova a parlare, mentre il panino ti si fredda nelle mani. Come un buon taco, un buon pezzo di sushi, il panino col lampredotto peggiora con ogni secondo che passa. Il delizioso attimo è fuggente.
Aggiungerei una nota personale. Mettiamo che una sera abbia bevuto un po’ troppo, e la mattina non mi senta in grandissima forma. Che faccio? Monto in bicicletta (non ne sono fiero, ma ho scoperto che riesco a pedalare anche quando non mi reggo in piedi) e filo dritto dal trippaio.
“Poco sale, pepe, salsa verde, piccante, e bagnato, per favore.”
“Un vino?”
“Massì.” Il fino sfuso che mesce Mario non sarà pregiato, ma è rassicurante, familiare, ciò che viene denominato il vino del contadino. L’attesa è una strana libidine. Ancora dolente e sbigottito, inalando profumi e guardando all’opera un maestro, so che tra poco starò meglio.