Testo e foto di Patrizia Berni

Appena si arriva ad Hanoi, la’ dove la città ha il suo ritmo forsennato scandito da frotte di motorini, taxi, camion e altri mezzi a braccia o a gambe, le venditrici ambulanti in bicicletta sono subito lì, come se fossero parte del paesaggio.
Con i loro cappellini a cono, e spesso la mascherina sulla bocca, suscitano nel viaggiatore occidentale una emozione risvegliando il nostro immaginario che negli anni ha composto l’idea del mosaico esotico.
Ma se vai al museo delle donne vietnamite, situato in un bel l’edificio bianco prospiciente un cortile, lungo Ly Thuong Kiet al numero 36, delle venditrici ambulanti inizi a conoscere qualcosa di più.
La poesia si spenge e colpisce innanzi tutto la vita grama di queste donne che vengono dalla campagna e che, per mantenere i figli e se stesse, lavorano in strada dall’alba alla sera, spesso rimanendo in città in miseri dormitori, lontane dalla famiglia che aspetta i loro magri proventi. Si tratta di contadine che non riescono a sopravvivere con il lavoro agricolo o che hanno avuto disgrazie in famiglia per cui non possono fare altro che vendere le loro braccia in qualsiasi lavoretto in città.
Nelle interviste raccolte nel tempio che questo paese asiatico offre alla celebrazione della donna, le venditrici ambulanti raccontano che cosa è loro capitato per spingerle a questo inferno, di cui il turista coglie con un sorriso l’immagine, superficie di un ricordo richiamato alla mente.
Vendono fiori o frutta, il loro mezzo è la bicicletta, esposta nel museo, assieme a ceste, bastoni di bambù e bilancine.
Nel museo delle donne si possono scoprire molti altri dettagli della vita quotidiana compresa quella delle minoranze etniche: oggetti di uso quotidiano, abiti, ricostruzione di modalità’ di lavoro o di cottura dei cibi, il tutto accompagnato da video che presentano anche i riti, come il matrimonio.

Una sezione è dedicata alle società matrilineari: si tratta di popoli che abitano gli altopiani del centro del Vietnam, come i Muong, gli Ede, i Jorai, i Coho, i Churu e i Raglai, mentre lungo la costa centrale i Cham. Presso di loro la donna ha un ruolo decisivo nella famiglia, gli uomini vanno ad abitare nella casa della sposa e i bambini portano il nome della madre. Anche l’ eredità va alle figlie e la minore è la privilegiata.
In generale, nel caso del matrimonio, si considera la condizione economica e sociale della famiglia. I doni che vengono scambiati sono il maiale arrosto, l’anatra, i polli, dolci e frutta. La donna indossa il vestito rosso, simbolo di benessere e fortuna.

La sezione dedicata alle società patrilineari è altrettanto corposa, si spiega come la famiglia del ragazzo giochi il ruolo più importante, come se ci fossero tre fasi nei rituali: fidanzamento, matrimonio e prima visita dell coppia alla famiglia dell ragazza. Di solito c’è un intermediario che aiuta a stabilire gli accordi fra le due famiglie.
Nella zona del museo dedicata alle attività esercitate dalle donne nella campagna, agricoltura e pesca, grandi pannelli con foto mostrano le donne al lavoro, esse hanno anche il compito di preparare i pasti, cosa non semplice, di tessere gli abiti per la famiglia (per cui viene da domandarsi che cosa facciano gli uomini, nda). Per la preparazione dei pasti si usava la cottura a legna su pietra, ora rimpiazzata dal carbone o gas o elettricità. Gli abiti tradizionali oggi sono portati solo durante le feste.

Una zona del museo espone immagini, abiti, strumenti musicali che fanno riferimento alla credenza della Dea Madre: si ritiene che essa protegga tutti gli uomini e dia loro salute, fortuna e successo. Si tratta di un culto autoctono, in cui si assumono al rango di divinità uomini e donne, creature celesti e terrestri. Gli adepti praticano riti che servono a consolidare questa credenza, anche attraverso l’arte teatrale che rappresenta storie di personaggi che hanno avuto importanti meriti verso il loro paese. Sono i medium a riprodurre le leggende di queste divinità che hanno difeso il Vietnam nella lotta contro gli invasori.

Infine, un piano del museo ospita le eroine della rivoluzione, le donne che hanno lottato contro i colonialisti e nella guerra cosiddetta “americana”. In mostra ci sono foto un po’ sbiadite con brevi didascalie sulla vita di ciascuna e poster che rappresentano donne armate, poster naïf sullo stile di quelli cinesi dell’epoca della rivoluzione culturale. Ma le informazioni su questo periodo rimangono scarse e poco descritte, tutto potrebbe meglio raccontare l’importante ruolo avuto dalle donne in questa fase del Paese, ma forse si danno per scontate.
Uscendo dal museo si torna nel cortile su cui si affaccia l’edificio che ne è la sede, dove troviamo un caffè che si distende lungo la cinta muraria con numerosi tavoli: là ci si può rinfrescare bevendo succhi di frutta, te’ o caffè ed osservare la folla che entra nel museo o chiacchiera seduta ai tavoli mentre le venditrici ambulanti aspettano che qualcuno si soffermi per comprare un gioco di carta, una frutta o una caramella.