Testo di Fabio Bertino | Fotografie di Roberta Melchiorre
“Noi Buriati abbiamo le teste più grandi di tutti”. Nelly lo dice con un sorriso di compiacimento. Deve essere vero, visto che su di un piedistallo in granito al centro di Piazza Sovetov troneggia una testa di Lenin alta oltre 7 metri e mezzo e pesante ben 42 tonnellate. Probabilmente la testa-monumento più imponente che esista. Siamo ad Ulan Ude, capoluogo della Repubblica di Buriazia, al chilometro 5.640 da Mosca sulla linea Transiberiana.
I Buriati, il popolo a cui Nelly appartiene, sono una delle numerose tribù mongole, con cui condividono i tipici tratti somatici, e la teoria della nostra amica è che le dimensioni notevoli del capo siano la dimostrazione di un’intelligenza altrettanto sviluppata. A riprova cita una serie di personalità buriate, a noi del tutto sconosciute, la cui mente eccelsa sarebbe a suo dire universalmente riconosciuta. Al di là delle considerazioni fisiognomiche di Nelly, comunque, l’influsso della cultura mongola ad Ulan Ude appare evidente anche tra i palazzi ed i monumenti di stampo sovietico. A partire dal cibo. Per pranzo ci infiliamo al Baatarai Urgöö, un ristorante realizzato all’interno di due grandi yurte, le tipiche tende mongole in feltro. Lo scopo è assaggiare i buzza, una sorta di enormi ravioloni ripieni di carne di agnello. Che si rivelano deliziosi ma decisamente pericolosi. Sono infatti impregnati di brodo incandescente che, se li si addenta con foga come facciamo noi, schizza tutto intorno con conseguenze poco piacevoli per il colpevole e per i suoi sfortunati vicini. Gustarli in sicurezza richiede quindi una tecnica particolare. Prima un piccolo morso da un lato, così da poter bere pian piano il brodo. E solo dopo un deciso attacco al ripieno. In città, in realtà, i due terzi della popolazione sono di origine russa, mentre i buriati costituiscono poco più del 20%, ma la nostra impressione è che i rapporti tra i due gruppi siano sostanzialmente buoni. Anche se pure a questo riguardo Nelly ha una sua drastica visione un po’ lombrosiana. “I matrimoni misti sono pochi. I bambini biondi dei russi sono carini, ma i nostri figli sono tutta un’altra cosa”. Dopo il crollo del’URSS si è assistito ad una vero e proprio riemergere della cultura buriata, che si è manifestato soprattutto nella dimensione spirituale. La regione è così diventata uno dei centri del buddhismo russo e dello sciamanesimo siberiano. In città risiede Nadia Stepanova, uno degli sciamani più famosi di tutta l’Asia e titolare di una cattedra di sciamanesimo alla locale Università, mentre a pochi chilometri sorge l’Ivolginsk Datsan, il più grande tempio buddhista di tutto il paese.
In questa rinascita culturale il grande lago Bajkal, con la sua natura incontaminata, occupa un posto fondamentale. “Perla della Siberia” per i russi e “Dalai Nor”, Mare Sacro, per i Buriati, è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità nel 1996. I suoi dati idrografici sono impressionanti. Vanta una superficie di 31.500 chilometri quadrati; è il lago più profondo del mondo, arrivando ad oltre 1.600 metri; costituisce la più grande massa d’acqua dolce del pianeta, pari a 23.000 km cubici; riceve nientemeno che 336 immissari; con 636 chilometri è il secondo lago per lunghezza dopo il Tanganica; raggiunge 80 chilometri di larghezza. Di fronte a tanta meraviglia decidiamo di abbandonare per qualche giorno il treno e, a bordo di un pulmino militare UAZ, ci dirigiamo verso questo portento della natura. Guida Batar, un ragazzone ben piantato che dice di essere un ex campione di buh, la lotta mongola. E ci accompagna Nelly. Prima di partire ci fermiamo in una delle basse case in legno alla periferia della città per ottenere la benedizione per il viaggio da Sandze Lama. “Lamà, con l’accento sulla “a”, per distinguerlo dall’animale” scherza Batar. Nonostante l’appellativo, però, non si tratta di un vero monaco, tant’è che ci riceve a casa propria. E’ piuttosto una via di mezzo tra un indovino ed una guida spirituale. Una figura frutto dell’intreccio inestricabile fra buddhismo tibetano e sciamanesimo siberiano che si è creato in questa regione. Nelly ci fa notare che sfoggia sei dita per mano, il che è considerato un segno del favore divino. In realtà, però, l’atmosfera in cui si svolge l’ incontro ha ben poco di mistico. Sandze è un uomo magrolino di mezza età e dall’aspetto piuttosto ordinario. Ci riceve in una stanza spoglia, seduto ad una scrivania di plastica e ci fa accomodare su traballanti sedie bianche. Il tutto ricorda un po’ un ambulatorio mentre il lama, con la camicia a mezze maniche e le scarpe lucide, fa pensare più ad un impiegato che non ad un santone. Abbiamo portato con noi una bottiglia di vodka, che Sandze piazza davanti a sé, dove già ne troneggiano altre sei vuote. Si informa sulla meta del nostro viaggio, dopodiché estrae un libretto iniziando a mormorare le benedizioni. Di tanto in tanto versa un po’ vodka in una coppetta sollevandola verso il cielo e vuotandola poi in un secchio sotto la scrivania. Di certo non il massimo dell’atmosfera mistica. Come se non bastasse, dopo qualche minuto il suo cellulare inizia a suonare e Sandze si mette allegramente a scherzare con il suo interlocutore. Terminata la sbrigativa cerimonia e preso atto delle rassicurazioni sul fatto che il nostro viaggio inizia sotto i migliori auspici, possiamo partire.
I circa 100 chilometri che ci separano dal lago attraversano un paesaggio magnifico. Foreste di abeti e betulle, montagne ricoperte di boschi che sfumano dal verde scuro al rosso al giallo intenso e piccoli paesi su cui svettano le cipolle dorate delle chiese ortodosse. Purtroppo, però, vento gelido, cielo coperto e acquazzoni che ci accompagnano per tutto il giorno sembrano smentire le ottimistiche previsioni di Sandze. Il primo impatto con il Bajkal è comunque indimenticabile. A causa delle nuvole non possiamo apprezzare il colore azzurro intenso per cui è famoso, ma il tempo minaccioso gli conferisce una affascinante aura di potenza primordiale.
Sull’immensa distesa d’acqua scura il vento gelido soffia con una forza spaventosa, all’orizzonte la penisola Svyatoy Nos sembra spuntare dal nulla nella nebbia mentre la striscia di spiaggia sabbiosa su cui ci troviamo e le alte onde che la spazzano giustificano l’appellativo di “mare” attribuitogli dai locali. Non sappiamo se davvero i buriati siano il popolo più intelligente del mondo, ma di certo ora possiamo capirne la venerazione per questa meraviglia antica di 20 milioni di anni. Insieme ai nostri accompagnatori rendiamo omaggio al gigante d’acqua alla maniera buriata, gettando al vento un bicchiere di vodka e alcuni chicchi di riso e legando ai rami di un arbusto, che ne è già ricoperto, alcune strisce di stoffa blu come omaggio agli spiriti locali.
Proseguiamo poi lungo la costa orientale fino alla cittadina di Ust Barguzin, dove ci fermiamo per la notte. Qui l’atmosfera è quella di una vera terra di frontiera. Una sorta di far west al centro dell’Asia. Le case in legno da vecchia Siberia, con tronchi a vista e finestre scolpite, costeggiano larghe strade sterrate rese fangose dalla pioggia dove di tanto in tanto passa slittando un sidecar scassato. In giro si vedono poche persone, imbaccuccate in pesanti giacconi e con grossi stivali ai piedi. Al fondo della strada principale una chiatta trainata da un rimorchiatore consente di oltrepassare la baia che interrompe bruscamente il centro abitato. Ci fermiamo nell’unica pensione, indimenticabile nel suo incredibile stile kitch-siberiano. Un basso edificio blu in legno affacciato su Ulitsa Lenina con l’insegna “Gostevoy Dom”, “casa per ospiti”, e solo sei camere. La nostra, la numero 5, contiene due letti spaziosi con la rete sfondata, una lampada rotta ed un antiquato televisore a transistor che riceve, male, un unico canale. Le pareti sono interamente ricoperte da grandi poster adesivi che raffigurano paesaggi dei dintorni. Su un tavolino al centro della stanza troneggia un vecchio telefono a disco rosa brillante mentre il lampadario, una cascata di gocce di vetro multicolori, avrebbe fatto furore negli anni ‘70. Ma il vero pezzo forte è il ristorante. Una stanza piccola e buia, con un modernissimo bancone da bar in vetro ed acciaio e quattro tavolini verde scuro. Alle pareti fanno bella mostra grandi manifesti su cui campeggiano tigri, leoni ed elefanti, mentre dal soffitto pende una foresta di piante finte di plastica con tanto di frutti fra cui mele, arance e mandarini. A suo modo un vero capolavoro di pop art.
Quando, il giorno dopo, ci rimettiamo in strada per raggiungere i villaggi della Valle Barguzin abitati da una mescolanza di evenki, russi e buriati, il cielo è di un azzurro intenso e il sole risplende riflettendosi sul lago. Nelly guarda verso l’alto e sorride: “E’ il segno che il Bajkal vi ha accettato e vi invita a ritornare”.