Testo e foto di Barbara Leoni
“Aveva la pelle marrone, sulla faccia, sul collo, sul petto: forse perché stava sempre così, mezzo nudo”. Con queste parole Italo Calvino descriveva nel racconto Un pomeriggio, Adamo, Libereso Guglielmi, il giovane giardiniere di casa, allievo dell’agronomo Mario Calvino, padre dello scrittore.
Libereso del ’25, Italo del ’23, insieme trascorsero i dieci anni più belli, quelli dell’adolescenza. Uno era per l’altro il proprio alter-ego: Libereso era il fratello acquisito che aveva scelto la strada dell’entroterra, quella del padre, rinnegata da Italo. “Mario Calvino passava sempre davanti al nostro giardino, sulla strada che portava a San Giovanni e fu lui ad offrirmi la borsa di studio”. A quattordici anni Libereso iniziò a lavorare alla Stazione sperimentale per la floricoltura di Sanremo con il professore, che ne era alla direzione, e a curare il giardino di casa Calvino a Villa Meridiana.
Era esigente, ti guardava con quegli occhiali…”. Nel ricordo di Libereso c’era l’immagine di un uomo dedito al lavoro, ruvido ma generoso. “Io ero ragazzino e poco alla volta ho imparato la genetica. Ero uno dei suoi allievi preferiti perché qualunque cosa mi chiedesse io la facevo. I suoi figli no, se ne fregavano… invece a me diceva di dare l’acqua sporca, voleva che io scendessi alla terra con le mani. L’osservazione in botanica è tutto – spiegava Libereso – Non bisogna mai pensare che una cosa è così punto e basta, perché la natura insegna sempre il contrario”.
Il resto del tempo il giovane aiutante lo trascorreva nelle campagne calviniane a San Giovanni, la famosa strada di cui scrisse Italo: una proprietà a ridosso dei boschi, sopra Sanremo. Là c’erano i frutteti, il “giardino segreto” del professore. “A volte andavamo nei boschi a cercare le piante, a prendere la legna, delle sfacchinate incredibili, e Italo protestava: «Io voglio fare il giornalista», poi spariva e lo trovavi a casa a dormire.
Ne La strada di San Giovanni lo scrittore affermava di non saper riconoscere né piante, né uccelli. “Si rifiutava. Italo pensava solo ai suoi romanzi. Era un tipo introverso, quasi inaccessibile, a volte non ti rispondeva. Eravamo amici ma eravamo diversi. Non era il tipo di bambino che seguiva l’amico”. Un ragazzo troppo adulto, secondo Libereso, e che di lì a qualche anno sarebbe diventato il più grande narratore italiano del ‘900. “Era sempre in un angolo a leggere un libro. A volte si innervosiva se lo disturbavi. Quelli che non gli andavano a genio non li considerava ma noi eravamo bambini e giocavamo”.
Il mondo di Italo Calvino si divideva in due: il suo, in giù dal cancello, dove cominciava la città, con i marciapiedi, le edicole, il cinema e la marina e quello del padre, in su, con la campagna, le mulattiere tra muri a secco e pali di vigne. Un territorio definito da quella linea di demarcazione della luce così netta in Liguria, lo scarto tra aprico e opaco di cui parlava Calvino. Una difficoltà a comprendere il regno del padre, più volte ammessa. “Forse avrebbe voluto farne parte perché veniva da me e mi chiedeva i nomi delle piante, se li segnava. Poi le cose che gli raccontavo le trovavo scritte ne La formica argentina, per esempio. Un pomeriggio, Adamo ero io – ricordava Libereso – mi ha descritto come mi vedeva lui”. Italo Calvino rifiutava l’imposizione della famiglia ma a quel mondo era legato.
Il ragazzo scrittore, visto dagli occhi del giardiniere, viveva in uno spazio suo: “Aveva ereditato la mentalità anarchica del padre e la severità e superbia della madre, Eva Mameli, anche lei botanica e scienziata”. I coniugi Calvino avevano vissuto in America Latina e avevano acclimatato alla Liguria una varietà di piante che però è andata perduta: “Molta frutta tropicale che oggi importiamo dall’estero, loro l’avevano portata qui
Durante la guerra, nascosto nell’entroterra, Libereso si cibò di sole piante: “Io ero vegetariano, ma con gli esperimenti scoprii nuove proprietà nutritive. Ci sono tante piante da mangiare ma nessuno lo sa”. Per lui, il mondo vegetale era incredibile ma andava conosciuto a fondo: “Pensa se dovessimo tornare a vivere con solo quello che ci dà la natura, non ne saremmo più capaci. Abbiamo centinaia di erbe medicinali e non le conosciamo. Vuol dire che è mancanza di qualcosa”.
Libereso si avvicinò alla botanica da bambino grazie al padre: “Lui ci teneva che conoscessi i nomi e che non raccontassi delle inesattezze. Per me divenne uno stile di vita e capii presto che quello che impari da piccolo, dalla tua curiosità e dai tuoi errori, vale più di tutto quello che ti insegnano gli altri”. Per anni Libereso ha avvicinato i bambini alla botanica. “Le scuole dovrebbero avere un giardino, soprattutto in Riviera. Bisogna insegnare che il nostro clima è uguale a quello subtropicale, chi è che lo sa…”.
Un ibrido, la vita di Libereso Guglielmi, per usare un termine botanico: dopo la morte di Mario Calvino, avvenuta nel ’51, si trasferì, infatti, nel Sud Italia, dove andò a dirigere un’azienda agricola e si dedicò alle orchidee. Otto anni più tardi, Libereso raggiungeva il fratello in Inghilterra. E Oltre Manica incontrò sua moglie e divenne capo-giardiniere e ricercatore alla facoltà di Farmacologia al giardino botanico di Mydelton House di Londra. “Non parlavo l’inglese ma fui scelto perché conoscevo i nomi di tutte le piante in latino”.
Tornò in Italia nel ’70 e il Comune di Sanremo gli diede una caretta per portare il letame. Lui se ne andò in Brianza a curare il giardino del Credito Italiano, a Lesmo. “Per me era naturale tornare a Sanremo, da dove ero partito. Avevo una qualifica di tecnico di ricerca dell’Università di Londra. Ma da noi funziona così: a comandare sono sempre gli incompetenti e oggi non è cambiato molto”.
Una vita dedicata alle piante e, tornando a Calvino, viene spontaneo chiedersi se Libereso non sia stato anche quel Cosimo, de Il barone rampante: “Io ero sempre sugli alberi, ogni tanto si faceva di quei voli… ero uno dei Tarzan del gruppo. Italo invece osservava. Si soffermava su alcuni aspetti della nostra vita da ragazzi. Se qualcosa lo colpiva, poi ne scriveva. Scrivere era la sua ragione di vita”.
Non solo alberi, perché Libereso era anche un pesce: “Sono ligure anche come mare. Ai tempi nostri dovevi sapere nuotare, era una cosa basica per noi. Da ragazzini facevamo le gare a chi andava più lontano. Era una comunità diversa, non c’era nulla e il mare era il nostro gioco preferito. Era una vita vera, non avevamo mica paura… invece, al giorno d’oggi, non sanno nemmeno più nuotare. La fanciullezza deve essere libera, solo così si crea la personalità”.
E della libertà ha fatto da ambasciatore il nome che ha portato: in esperanto Libereso vuol dire “uomo libero”: “Mio padre era un esperantista. Lui era per la libertà assoluta, voleva solo che facessi bene quello che avevo scelto”. Libereso ha onorato il proprio nome, imparando che l’uomo si è reso schiavo delle abitudini ma che in realtà non esistono ostacoli per la mente. Difficile definirlo, a lui piaceva dirsi panteista, ma forse è stato solo un uomo cosciente: “Io sono figlio del sole e tutto quello che mangio è sole. Ho bisogno di stare nella terra”.