Testo e foto di Eliana Petrizzi
Ci voleva questa giornata velata e incerta per allontanarmi dalla spiaggia che frequento da vent’anni, in un paese di cui conosco gente e strade come fosse un poco il mio: Marina di Camerota, tra le località balneari più rinomate del Cilento; mare cristallino, cibo tipico, ospitalità e percorsi naturalistici che hanno conservato intatto il rigoglio dell’entroterra mediterraneo.
Il Parco del Cilento non è solo mare. È una vasta area naturale protetta che comprende ottanta comuni, Patrimonio dell’UNESCO, dal 1997 anche Riserva della biosfera, e dal 2010 primo parco nazionale italiano a diventare Geoparco. Lascio quindi il lido e salgo verso Licusati, borgo di origine medievale il cui nome pare indicare l’antica divisione territoriale che sussisteva tra “li monaci”, i celibi, e “li accasati”, coloro che contraevano matrimonio. Licusati è una frazione di Camerota, distante circa otto chilometri dal mare. Chi viene qui è di solito il turista straniero, in coppia o con amici, ma anche il viaggiatore italiano che non ama la confusione e che non ha voglia di scendere ogni giorno in spiaggia, preferendo il lieto niente da fare offerto da un borgo nascosto tra i tipici ulivi pisciottani. Licusati è un paese senza tacchi e senza trucco. Qui non si viene a visitare qualcosa di preciso, non è nemmeno un paese che si incontra andando da una destinazione più nota all’altra. È un paese che appartiene al circuito dell’intenzione lenta, cui si presta il camminatore votato alla deriva psicogeografica suggerita da Guy Debord: “Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta”.
Raggiungendo Licusati, il turista affetto da isteria vacanziera resterà spiazzato. Qui ci sono poche distrazioni, mancano soprattutto le paralisi global che hanno fatto di troppi centri luoghi atopici. Licusati è un frutto spontaneo che si mangia con le mani e senza togliere la buccia. Qui passato e presente si vivono accanto senza giaculatorie e senza rimpianti. Il vecchio si tiene e si rispetta, il nuovo si fa. Tra le sue strade e nelle campagne, la pace e il vuoto respirano l’orizzonte vasto del mare vicino. Il vuoto allora si consola e diventa ottimista, diversamente da quanto accade ai paesi che vanno scomparendo perché senza popolo, con troppa memoria e poche speranze. A Licusati non ci si annoia e non ci si sconforta. Le mete balneari vicine danno lavoro a molti, e dove non arriva il mare interviene la terra coi suoi uliveti e i suoi prodotti tipici. Si sta bene in compagnia del cielo chiaro e di passi calmi, e il clima lascia vivere meglio chi non ha voluto trasferirsi altrove. In strada passano molte Ape Piaggio che trasportano bombole del gas e materiale per lavori manuali. Visito la Chiesa di S. Marco, poi entro nel ventre del paese. A Licusati c’è da vedere: tra le altre cose, i ruderi del Castello di Montelmo e il Cenobio italo-greco di S. Pietro, l’attuale cimitero, che fu per un periodo anche monastero augustiniano dei Premostratensi. Salutate le vestigie storiche, inizio un viaggio diverso. Incontro così i muri delle botteghe spente, l’insegna di un negozio che sta lì da cinquant’anni, la posa degli abitanti fuori al circolo, la misura dell’eco di un mezzo che passa, la cui durata dice sempre molto di un posto e di chi ci abita. In paesi come Licusati mi piace soprattutto il fatto che sono le ombre che cambiano a comandare il momento del pranzo, di un incontro o di uno spostamento. E mi piacciono pure i vecchi seduti all’alba davanti al bar. Di fatto non si capisce bene cosa fissano. Eppure, osservandoli capisco che solo in questo modo sono veramente felici. La vita per loro è un raccolto che dà sempre qualche frutto. Ogni giorno prendono una sedia e stanno all’aria aperta, censori impeccabili delle persone che prima c’erano e poi non ci sono più, dello straccio al balcone prima bagnato poi asciutto, di uno che prima stava da solo e adesso è in compagnia.
Le case in pietra di Licusati hanno balconi di ferro battuto, con piante grasse che colano rigogliose oltre le ringhiere. I vasi di gerani vincono senza gara sui rossi e i verdi delle bandiere dell’Italia appese ovunque in onore degli europei. Nonni, madre e bambini siedono in strada a ripassare i compiti o a scherzare, con quella fiducia nell’ora presente che mi ricorda certi viaggi in Sud America, all’Havana per esempio, o a Caracas. Come lì, fregi, portoni, colonnati, scale e terrecotte struggono coi loro sapori di zucchero grezzo, di carne calda e di vento battente. Si sente il mare tra gli ulivi, mentre la luce che intarsia case e strade va salvandole in una delicatezza di trina. Nelle abitazioni abbandonate, le finestre sono palpebre che anche chiuse vegliano. Accanto a queste, le anziane vestite di nero siedono in silenzio sulle scale di casa. Riconoscono subito chi non è del posto, dagli gli abiti della città e il passo di chi non è abituato alla lentezza. Da queste parti gli accadimenti sono aghi senza cruna e ganci senza presa. Il niente da fare, cancro per chi vive in città, qui è la cura.
Pantaleo Tarallo è un giovane scultore del posto. Lo conosco per caso chiedendogli dove andare, e così, nascosto tra le case del centro storico, mi mostra il suo “trappeto a sangue all’uso genovese”, un frantoio risalente alla fine del ‘700, tra i pochi rimasti dei 32 presenti in passato a Licusati. Pantaleo lo sta ristrutturando per restituire alla comunità e ai turisti un capitolo di storia locale, che anche così, diroccato, vale un museo della civiltà contadina. Salendo ancora lungo i vicoli, incontro Palazzo Crocco (1550), splendida dimora gentilizia in parte trasformata in Bed and Breakfast dalle eredi Elena e Pina, signore riservate e generose che hanno preservato struttura e arredi originali dell’epoca, creando una formula di accoglienza che abbina l’ospitalità storica di lusso ai pregi del paese tipico: umiltà, genuinità dell’accoglienza, rispetto delle tradizioni e curiosità del nuovo. Tra l’altro, il palazzo offre la possibilità di visitare una pregevole collezione di porcellane antiche, e una libreria storica che annovera testi cinquecenteschi di Cicerone, Tito Livio, Seneca e Orazio. Gli amici venuti con me a Licusati, che all’arrivo avevano detto che qui non c’era niente da fare e che la nostra gita era solo una giornata di mare persa, hanno cambiato idea. Adesso anche loro non vogliono più scendere in spiaggia. Il grigio del cielo si è mantenuto calmo, dietro squarci che ricordano a tratti la pacata inumanità delle foto di Ghirri. Nei vicoli di Licusati si sta freschi e non c’è confusione, il cibo è ottimo e costa meno che a Marina. Non c’è passo che non raccolga una storia da cui trarre una foto saporita o una considerazione importante. La mia considerazione a Licusati è stata questa: in luoghi come questo bisognerebbe combattere pretese e miserie della compiutezza, esonerando azioni e parole dall’ambizione dell’approdo. Il cammino deve accompagnare alla scoperta di quello che non si vede per eccesso di presenza. Più che le forme piene, deve descrivere gli spazi vuoti, considerando l’intervallo come evento concreto. Solo allora si saluta la propria casa e il viaggio verso la bellezza pacificante dell’essenziale ha veramente inizio. A Licusati, per questo viaggio si può andare.