parole, disegni e foto di Mari Accardi
La mia esperienza in Francia in una scuola pubblica è durata tre mesi – in realtà due, considerando che oltre alle feste riconosciute ci sono quindici giorni di vacanze a novembre, febbraio e aprile. L’Unione Europea sovvenzionava me, presunta futura insegnante, per fare un tirocinio all’estero, e sovvenzionava la scuola ospitante, dove infatti gli assistenti di lingua italiana sovrabbondavano. Il primo giorno, dopo essermi presentata, uno studente coi baffi blu mi ha chiesto se in Sicilia avessero messo le strade e ho pensato che forse di fronte all’ennesima straniera fossero ormai a corto di domande.
Essendo arrivata a metà anno, non avevo un ruolo fisso: il mio orario cambiava di settimana in settimana, a seconda del bisogno dei vari professori. Facevo conversazione a tu per tu con gli alunni di maturità, lezioni di scrittura creativa a una sola alunna, spiegavo gli effetti del boom economico con spezzoni di Fantozzi, creavo esercizi a partire dal Grande Fratello che in Francia però si chiamava Loft Story o anche Secret Story e che, almeno tra i miei studenti non era così popolare, e facevo confusione tra le classi perché in Francia il liceo dura tre anni e va in ordine decrescente: seconde, première e terminale (la scuola media, che si chiama collège, va dalla sixième alla troisième).
Lavoravo in un liceo sperimentale, in cui gli indirizzi più svariati si mischiavano insieme, e la scelta dipendeva dai voti e non dalla vocazione. Il mio tutor diceva che il destino di ogni francese veniva deciso alle scuole medie, in cui forse il concetto di futuro non era neppure contemplato. Io pensavo che anche potendo scegliere non sempre si azzecca ma forse era diverso.
In quel momento la battaglia più grande era ottenere il diritto di portare il velo e altre ‘ostentazioni religiose’ vietate dal governo. Una delle guerrigliere si trovava nella classe di terminale che spesso gestivo. ’Madame, non capisco perché questo Fantozzi dovrebbe farci ridere’ diceva, con le braccia incrociate e il cappuccio in testa. ‘Infatti è tristissimo’ dicevo io. Lei per tutta risposta era uscita dalla classe, seguita dal ragazzo coi baffi blu.
Usare video, musica, far lavorare in gruppo, chiedere opinioni, faceva parte di una riforma nell’insegnamento delle lingue moderne dove la grammatica era quasi bandita (ogni tanto venivano gli ispettori). I banchi erano posizionati a ferro di cavallo in modo che tutti fossero in qualche modo al centro. Gli argomenti non vanno in ordine cronologico ma per temi, che all’ultimo anno sono: Miti e eroi, spazi e scambi, luoghi e forme di potere, idea di progresso (Fantozzi rientrava in almeno tre di esse) e le verifiche sono più che altro scritte o ‘rappresentate’.
Per rendere più efficace la lezione sulla politica italiana l’insegnante aveva chiesto a ogni allievo di preparare una campagna elettorale con tanto di volantini. La bionda di turno aveva fondato il partito dell’amore e nella foto era vestita da segretaria sexy, Baffo blu si batteva per una mensa migliore, Calogero, di origini nissene, si batteva invece per avere delle brande in cui riposarsi nei momenti di buco (le lezioni duravano fino al pomeriggio). Océane, quella che in una distribuzione normale dei banchi si sarebbe messa all’ultimo, aveva fondato il partito individualista in cui si potevano seguire le lezioni ovunque si volesse in videoconferenza. A essere eletto, alla fine, era stato Calogero. E Calogero, così come tutti gli altri, veniva chiamato Calogero, mai per cognome. E l’insegnante sempre Madame, o Monsieur, mai Prof, nonostante la tendenza francese ad abbreviare le parole.
Questi studenti recitavano, disegnavano, scrivevano, anche canzoni, progettavano giri del mondo in carretto a favore di un turismo sostenibile. Dove li porterà tutta questa creatività, mi chiedevo e chiedevo loro durante le conversazioni a due. A prescindere dall’indirizzo scelto – o imposto – non ce n’era uno che volesse fare un mestiere creativo, in senso stretto. Il futuro era pieno di infermieri, fisioterapisti e contabili. E non lo dicevano per dire: molti ventitreenni avevano già un lavoro fisso.
‘Con tutte queste attività da inventare dev’essere divertente fare il professore’, ho detto al mio tutor, per l’appunto più giovane di me, di ruolo da quasi dieci anni.
‘Mah, non ti credere che il livello si stia alzando. Io tornerei alla grammatica’.
‘Magari mezz’ora a settimana’.
‘Due ore minimo’.
Camminando verso il bar dove facevamo il consueto aperitivo passavamo davanti a una scuola elementare con i monopattini dei bambini posteggiati in cortile, ed entrambi venivamo presi da uno strano sentimento di nostalgia.