Testo, foto e video di Laura Onofrio Giorgio Leon.
Eccoci qui, alle porte di quello che chiunque finora ci ha descritto come lo stato più antipatico di tutta l’Asia centrale. Il visto di transito ci obbliga ad attraversare il Turkmenistan in soli cinque giorni, vincolati in entrata e in uscita da posti di confine pre-dichiarati. Turkmenbashi, l’ex presidente, ci tiene a salutarci per primo in formato poster gigante non appena arriviamo al controllo passaporti: ci abitueremo presto al suo faccione onnipresente, alla foto in cui cammina di profilo facendo “ciao” e a quella in cui gli è stato ridisegnato un orecchio con Paint. Intanto passiamo qualche ora in attesa di essere considerati e di poter passare sotto il metal detector.
Non siamo più in Iran, e si vede: nessuno che ci offre aiuto o datteri squisiti, solamente una fiumana di matrone baffute che ci spintonano senza pietà ficcandoci i loro gomiti da contadine nei fianchi per rubarci il posto in coda. Decine di tappeti iraniani sono impacchettati in attesa di controlli per poter entrare in Turkmenistan, così come le miriadi di sacchetti pieni di detersivi (…ma perché?!) e scatole di dolci, anch’essi iraniani (ok, di questi riusciamo a capire molto bene il perché, dopo dodici giorni deliziosamente iperglicemici). Determinati a non farci surclassare da un mucchio di tappeti, li scavalchiamo e ce ne andiamo ad Ashgabat. La capitale è un’enorme distesa di marmo bianco e oro, uno scimmiottamento mal riuscito di Vienna condito da un’enorme dose di cattivo gusto.
Il Turkmenistan è ricchissimo di risorse naturali, una su tutte il gas, che proprio ai tempi di Turkmenbashi ha fornito i proventi necessari ad alimentare la sua megalomania: ad ogni angolo ci sono statue d’oro che lo ritraggono, palazzi governativi tutti uguali, esagerati e pomposi ed una residenza presidenziale a cui i turisti non possono nemmeno avvicinarsi, sorvegliata da ronde di poliziotti giorno e notte. Guai a scattare una foto, se non si vuole avere a che fare con questi ben poco affabili custodi dell’ordine pubblico. Un’altra grande idea del presidente è stata quella di abolire i cartelli coi nomi delle vie, sostituendoli con dei numeri: potremmo anche passarci sopra, se non fosse che tutti continuano ad usare i vecchi nomi creando una confusione inutile.
Due notti ad Ashgabat sono anche troppe, ma ci servono per perlustrare i dintorni, soprattutto la grotta termale sotterranea di Kow Ata, in cui ci facciamo un bagno a 36°C passando dalla felpa al costume da bagno e immergendoci nei vapori sulfurei. Abbandoniamo felici il nostro hotel, un casermone sovietico coi bagni dalle pareti scrostate, un secchio a mo’ di sciacquone e due topolini che sbucano da sotto il letto nel bel mezzo di un pomeriggio di ozio. Carini, solo un po’ poco rassicuranti. Siamo ansiosi di arrivare al pezzo forte: i crateri gassosi di Darvaza, che si trovano 250 km a nord della capitale, nel deserto del Karakum.
Il viaggio in taxi collettivo dura qualche ora, come al solito tutti i passeggeri sono incuriositi dalla nostra presenza e armeggiano con boccioni di vodka enormi dall’impugnatura in stile tanica di detersivo, continuando a chiamare Giorgio “Johnson”. Il taxi ci lascia in una chaikana (la “sala da tè” locale) in mezzo al nulla, dove riusciamo ad assaggiare il nostro primo plov e ad affinare ulteriormente la nostra abilità nel contrattare. Per un totale di 35$ il proprietario ci porterà al cratere principale non appena farà buio, in più ci farà dormire nei nostri sacchi a pelo sui tappeti della sala, cosa che ci suona fantastica e ci fa sentire una volta per tutte “where the action is”…!
In attesa che il buio cali, pero’, siamo risucchiati nel vortice della loro cena. Inizia il carosello di manty (i ravioloni locali) innaffiati con latte fermentato (kimys) e bicchierini di vodka. Cercano di farci bere in continuazione secondo l’inconfutabile logica del: “non c’è uno senza due, non c’è due senza tre, il quattro vien da sè”. Nel nostro cuore ora sappiamo qual è stata la vera arma segreta dell’Unione Sovietica, e la malediciamo ad ogni sorso. Quando un uomo alla nostra tavolata fa bere un sorso al figlio di due anni crediamo di avere le traveggole: è la pratica di svezzamento più improbabile del mondo.
[youtube height=”HEIGHT” width=”WIDTH”]http://www.youtube.com/watch?v=xTgogMVtSUc[/youtube]
Finalmente riusciamo a salire sulla Volkswagen Tuareg del nostro nuovo amico Ibrahim e, duna dopo duna, arriviamo nelle vicinanze del cratere di fuoco, detto anche “la porta dell’inferno”. La luce che sprigiona è visibile già da chilometri di distanza, ma più ci si avvicina più l’impressione che dà è inquietante e magnetica. Il cratere è frutto di un esperimento sovietico fallito di circa quarant’anni fa, durante il quale fu colpito un giacimento sotterraneo di gas naturale, che da allora continua a produrre fiamme ininterrottamente. Il governo turkmeno sta pensando da qualche anno alla possibilità di coprire il cratere estinguendo le fiamme, ma finora ancora nulla di fatto: fortunatamente siamo arrivati in tempo per ammirarlo. In cinque giorni di Turkmenistan siamo passati così dal marmo bianco alle acque termali sotterranee, dalla sabbia del deserto affollato di cammelli al gas naturale che fiammeggia nel buio… non potevamo davvero chiedere di meglio ad una nazione da cui non sapevamo proprio cosa aspettarci.
Laura e Giorgio sono partiti qualche mese con un treno da Milano e cercheranno di utilizzare solo mezzi di terra e di mare (treni, bus, pulmini, traghetti, aliscafi, calessi, quadrupedi, tutto ciò che troveranno lungo la strada) per percorrere parte dell’est Europa, il Caucaso, l’Asia centrale, la Cina e infine il Sud Est asiatico.
Seguiteli sul loro blog: