Testo di Marco Montanaro /Fotografie di Daniele Argentiero e Gabriele Fanelli
(No) Fiffa Inda Street – Teaser di un documentario mai realizzato from pierpaolo filomeno on Vimeo.
La storia, ormai, la conoscono tutti. Quella sera il bar Chopin aveva chiuso presto. Andrea e Massimiliano Chirico, fratelli-camerieri, avevano chiesto a un amico di andare a prendere le porte. Quelle piccole, da allenamento. Gli altri erano stato allertati via telefono. Era buio quando si sono trovati al parchetto di via Mangia, periferia di Francavilla Fontana, provincia di Brindisi. Dodici persone, tre squadre da tre: Simone avrebbe arbitrato, Marino avrebbe interpretato il ruolo dell’unico spettatore non pagante e Daniele Argentiero, primogenito del proprietario del bar Chopin, avrebbe fatto le foto.
Verso mezzanotte l’arrivo, inevitabile, dei carabinieri, e così quella prima edizione del Fiffa inda Street non avrebbe avuto una finale. Tre anni e molte finali dopo, il torneo di calcio tre contro su asfalto avrebbe contato centinaia di partecipanti. È difficile dire cosa c’è stato nel mezzo: come per tutto ciò che è affine alla leggenda più che alla scarna cronologia, le diverse versioni di questa storia non sempre coincidono. L’unica cosa certa è che la prima volta si trattava di un giovedì sera di marzo 2012, e che tutto quello che è venuto dopo è successo sempre e solo – rigorosamente – di lunedì.
Bisogna tener conto di quello che è Francavilla Fontana, del contesto: vent’anni di governo di un’area politica erede di una Democrazia Cristiana eterna e persistente, peraltro nel buco nero di una provincia a sua volta buco nero di un’intera regione – anche nel momento in cui la Puglia cominciava a esistere sulla cartina geografica d’Italia. Nessuna iniziativa culturale, nessuna politica sociale particolarmente memorabile. Il vuoto, per farla breve. E allora, suggerisce qualcuno, è stato proprio per via di quel vuoto, forse, che è nato il Fiffa inda Street; una risposta involontaria, indiretta, anarchica nel non porsi neppure la classica domanda sul che fare: ci andava di farlo, lo abbiamo fatto. Punto.
Oggi Francavilla, in cui si giocano le principali edizioni – i volumi – del Fiffa, è ancora una cittadina meridionale di quarantamila abitanti che non ha deciso se diventare città o restare paese; in cui le statue delle madonne che nel mese mariano girano di casa in casa convivono con gli screenshot degli status dei politici su Facebook scambiati in gran segreto tra amici su Whatsapp.
La tecnologia e i social sono stati determinanti anche per il Fiffa inda Street. Dopo i primi volumi, in cui le squadre cominciano a moltiplicarsi, Massimiliano, allora ventenne, apre la pagina Facebook dedicata. Il racconto e l’ironia dei suoi post, insieme coi tag e i video da smartphone delle persone che si sfidano in quei rave improvvisati di calcio da strada, fanno il resto. Un tempo si chiamava passaparola, adesso si dice virale. Lo spirito del Fiffa, in ogni caso, è contagioso. Il torneo, tuttora gratuito e aperto a chiunque, è uno strano miscuglio tra parodia del calcio vero (cominciano a spuntare veri e propri team, simili a franchigie da sport americani) e semplice voglia di stare insieme, di tornare per strada in una città che ha molti locali alla moda e poca gente in giro. Perché ovviamente Francavilla è anche uno di quei posti da cui si emigra, come in ogni altro paese meridionale.
Tre anni dopo, durante il Gran Galà 2015 del Fiffa inda Street – anche questa una parodia del calcio vero, in cui si premiano, con coppe da pochi euro riciclate dagli amici, i migliori campioni e bidoni dell’anno – Massimiliano dirà dal palco che il torneo, per qualcuno, è stato forse un motivo in più per restare. Tanto le cose vanno male per tutti, sia qui che altrove: ma almeno qui abbiamo qualcosa da fare, qualcosa a cui appartenere. Ad ascoltarlo ci sono circa duecento persone. Non sono grandissimi numeri, per la verità: durante il Fiffarrone, volume speciale del torneo, si arriva a mille persone tra giocatori e pubblico. Anche il Fiffarrone e il Galà, inutile dirlo, si tengono rigorosamente di lunedì.
Qualcun altro, qualche decennio prima, è però andato via a tutti gli effetti. Inizio anni ’70 del secolo scorso: Luciano Argentiero, diciassettenne con la passione per il disegno e le parole, è partito da Francavilla per la Germania come molti suoi coetanei. C’è quest’altra leggenda che vuole parecchi francavillesi gelatai tra i tedeschi, in quegli anni. E così anche Luciano comincia la sua gavetta come cameriere. L’idea, probabilmente, è quella di imparare la lingua, mettere un po’ di soldi da parte e poi decidere cosa fare.
Se glielo chiedi, Massimiliano risponde che soprattutto all’inizio è stato suo fratello, il motore principale del Fiffa. Andrea, ventiquattro anni quando tutto ha avuto inizio, è uno che ha visto il pallone ovunque, sin da piccolo. Con un po’ di fortuna avrebbe potuto fare strada. In campo è un mancino compatto, il che nel Fiffa significa che puoi essere un ottimo attaccante e un ottimo difensore. Perché col tempo nel torneo sono venuti fuori ruoli, tattiche, strategie. E certamente Andrea ha fatto da richiamo per molti altri che, come lui, avrebbero voluto fare carriera col pallone. Ragazzi che nel Fiffa hanno trovato molto più di un ripiego: tanto da disertare gli allenamenti delle scuole calcio pur di passare un pomeriggio sui campi da strada, tracciati nel tempo con la calce, col gesso o con la sabbia. Del resto, se di lunedì puoi alzare un trofeo, per quanto farlocco, davanti a trecento persone, perché andare a sbattersi per un noiosissimo allenamento che ti porterà comunque in panchina la domenica successiva? A quel punto, qual è il calcio vero?
In tre anni, la pagina Facebook del Fiffa ha macinato contatti, like, visite. I social media manager di professione impazzirebbero dietro a quello che Massimiliano, con modestia, sminuisce, e che invece è forse uno dei casi più riusciti di storytelling – e via con termini inglesi che spesso non traducono un bel niente – di un’avventura incredibile. Parallelamente, sono stati macinati anche i chilometri. Oggi il Fiffa inda Street si gioca più o meno regolarmente anche a Torino (nei paraggi dell’Olimpico), Colonna (provincia di Roma), Cipolletti (Patagonia, Argentina). La Germania non è poi così lontana. Ma forse, in un modo o nell’altro, il Fiffa ci è già stato.
Sempre qualche decennio prima, a Herford, in Renania, Luciano ha comprato la gelateria in cui aveva cominciato come cameriere. Dopodiché ha aperto un ristorante e la pizzeria Vesuvio. Tre lavori in uno, che fruttano bene. Tanto che si è sposato con Mariella, francavillese anche lei, che gli dà una mano sul lavoro. Arriva anche il primo figlio. Molti anni dopo, a Francavilla, Daniele sarà conosciuto come il barman fotografo fulminato dallo stile dell’australiano Trent Parke, oltre che come copywriter mancato (sono sue molte intuizioni in fatto di titoli e claim del Fiffa). Se glielo chiedi, ti risponde che qualche parola in tedesco la ricorda ancora. La lingua, in Germania, l’ha imparata coi cartoni animati e al supermercato con Mariella o coi nonni. Un giorno non troppo lontano insegnerà quel poco che ricorda ai piccoli Gianpaolo e Alice, avuti con Arianna, nati in Italia all’inizio del nuovo millennio.
I problemi col quartiere in cui si giocavano le prime edizioni, i fiffers li hanno avuti quando le squadre e i partecipanti hanno cominciato a moltiplicarsi a valanga. Puntualmente arrivavano i vigili o i carabinieri e bisognava interrompere il torneo. Proprio come in un rave. Anche perché il Fiffa non era – e non è ancora – un’associazione né un gruppo formalizzato. Nessuna assicurazione in caso di infortunio, nessuno da denunciare in caso di risse, disordini o disturbo della quiete pubblica. Anche perché sono eventualità rare. Chi partecipa al Fiffa sa che non deve provocare, litigare, farsi male. Anche adesso che le cose si sono fatte un po’ più serie.
Alla fine, Luciano è tornato dalla Germania a metà anni ’80, dopo aver ceduto il suo amato Vesuvio ad altri emigrati italiani. A Francavilla si è messo a lavorare come cameriere, fin quando non ha letto l’annuncio: lo Chopin è in vendita. Il locale si trova dalle parti del Castello Imperiali, dove comincia (o finisce) il centro storico di Francavilla. Operai e braccianti vanno a farci colazione prima del lavoro che li porta in giro per la Puglia già prima dell’alba. Luciano decide di rilevarlo. Dopo vent’anni, a inizio Duemila, il bar cambia postazione, spostandosi qualche metro più avanti. Adesso ha una saletta più grande. Su Facebook è il Bar Conlamusicabuona, perché Daniele, come suo padre Luciano, è un grande amante del jazz. Nella saletta o ai tavolini fuori vengono prese tutte o quasi le decisioni che hanno a che fare col Fiffa inda Street.
E così è stato per tutti i tre anni del Fiffa. Quando, ad esempio, si è deciso di partecipare a un bando promosso da Inpuntadipiedi, un centro giovanile locale, con cui i fiffers sono riusciti a trovare i fondi per organizzare diversi volumi del torneo una volta che era ormai impossibile muoversi ancora come clandestini del calcio da strada; quando, pure, il Fiffa è stato coinvolto nella Scuola di Bollenti Spiriti, programma di formazione per animatori di comunità promosso dall’Assessorato alle Politiche Giovanili della Regione Puglia; e ancora quando il gruppo degli organizzatori, ormai una cinquantina in pianta stabile, ha dovuto cominciare a pianificare in dettaglio l’organizzazione dei volumi per un anno intero, dato il numero crescente di richieste da paesi più o meno vicini; e così via, tutto informale, orizzontale, per una comunità di persone che vanno dai tredici ai quarant’anni e che include studenti, disoccupati, camerieri, braccianti, operai, ingegneri, e così via.
In questi anni, anni senza la fiffa (paura, in dialetto francavillese) di tornare per strada, lì dove avevano giocato le generazioni precedenti, è successo di tutto. Ci sono state edizioni ufficiali in giro per tutta la Puglia; qualche puntatina, come detto, fuori regione; è aumentato il numero di giocatori e squadre così come quello delle coppe (ci sono la Scempions League e l’Eufoca – dove la foca è il rosicare – e persino i mondiali, in cui le nazionalità sono quelle dei paesi e delle città limitrofe); si è continuato a giocare clandestinamente – d’estate, per le strade di Francavilla, non è inusuale incappare in gruppetti di ragazzini che girano per la città con due piccole porte di ferro, rigorosamente autocostruite, sulle spalle; la pagina Facebook del Fiffa galoppa verso i diecimila like; sono fioriti video, illustrazioni e magliette personalizzate, spesso con l’aiuto di amici più o meno professionisti che si sono messi a disposizione; si sono giocate edizioni in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, si è giocato in circoli anarchici e in lussuosi lidi privati. Molte di queste cose hanno continuato ad accadere esclusivamente di lunedì.
In molti si sono avvicinati al Fiffa per analizzarlo e provare a tirare fuori una teoria da quella che è una pratica inspiegabile, che funziona (mentre si fa) molto più di mille tomi di sociologia, crowdsourcing, crowdfunding e via dicendo. Per qualcuno il Fiffa è stato, fin qui, un fenomeno da baraccone inventato da tre cugini piuttosto estrosi (i fratelli Chirico sono imparentati con gli Argentiero per parte di padre: Mimmo è fratello di Mariella ed è stato anche lui in Germania; questi collegamenti familiari alla Gabriel García Márquez conservano ancora una certa magia, da queste parti). Per qualcun altro è un semplice torneo di pallone, strutturato però secondo le modalità smart in voga nel ventunesimo secolo: organizzazione a rete, in cui chiunque può attivare il nodo o la cellula di un franchising sostanzialmente gratuito (purché ne sposi la causa), rapporti orizzontali, reputazione invece che autorità, produzione di contenuti digitali a costo zero per il reclutamento di nuovi adepti, ecc.
Il fatto è che il Fiffa raccoglie al suo interno voci molto diverse e dà spazio a tutti. Ha in sé il sogno, più anarchico che autarchico, di bastare a se stessi tenendo sempre vivo il desiderio di conoscere e mischiarsi con gli altri; l’HD dei video più raffinati e il punk dell’autoproduzione di magliette e porte; la fighetteria dei Galà e la saudade per il profumo della carta di CALCE, la fanzine nata qualche mese fa; l’umorismo delle parodie del calcio vero di Massimiliano e dei suoi amici e quello dal tono castrante e definitivo tipico dei meridionali. Se provi a isolarne una parte, ti sfuggirà il senso, altrettanto profondo, che sta da un’altra. Il Fiffa è una pianta esotica e autoctona insieme, con molti rami e molti fiori. Che poi cambia forma e diventa un animale. Se provi a mettergli la museruola, ti annusa un po’ e poi va via, per la sua strada.
Se provi a chiedere invece cosa potrà diventare il Fiffa in futuro, Andrea, che forse è il più romantico del gruppo, ti dirà che ci sono due ipotesi. Tra cinquant’anni il torneo non si giocherà più e chi lo ha inventato o ci ha giocato potrà raccontarlo ai nipoti con quel piglio eroico o nostalgico di chi ha fatto la storia, seppure minima, di una città; oppure sarà cresciuto così tanto da essere diventato una vera e propria istituzione, qualcosa sulla scia del Torneo dei Rioni della vicina Oria, cittadina medievale e rivale storica di Francavilla, o, perché no, una sorta di Palio di Siena in salsa francavillese. Continuando a fantasticare, ci sarà forse una Fondazione Fiffa inda Street così potente da influire sugli equilibri politici locali, come accade in provincia di Bari con il Carnevale di Putigano. E magari qualche purista storcerà il naso ripensando ai primi volumi organizzati come rave-del-pallone. Chi può dirlo? In fondo, sarà andata bene, quantomeno da un punto di vista filologico, se si sarà conservato il lunedì come giorno in cui si disputa il torneo.
E chissà allora sulla base di cosa aveva deciso Luciano, quando, non appena rimesso piede in Italia sul finire degli anni ’80 del secolo scorso, ha fatto la sua scelta; magari gli era sembrato opportuno avere un po’ più di tempo libero per sua moglie Mariella e per il piccolo Daniele nel giorno che viene dopo la maledetta domenica – che per gli altri è di riposo, ma per i baristi può essere un mezzo inferno. Magari, mentre decideva, Luciano stava osservando proprio Daniele che smetteva di intedescare (come quel personaggio di Antonio Tabucchi in Tristano muore) per cominciare a masticare il dialetto dei suoi compagni di scuola, la stessa lingua con cui avrebbe costruito claim e calembour per il Fiffa inda Street. Di certo, Luciano non immaginava il corso di quante vite avrebbe influenzato apponendo, dietro al bancone, il classico cartello su cui stava scritto che al bar Chopin, di lunedì, si riposa.
Ndr: Sul web trovate la pagina FB del Fiffa inda Street. Prossimo appuntamento italiano a Ostuni, a Lido Il Faro di Villanova Ostuni il 27 di luglio.