di Ilario de Biase.
Cosa hanno in comune la letteratura da viaggio e il fare un’installazione? Cosa ha in comune Erodoto con Marcel Duchamp? L’Historìai con Étant donnés? Un bisogno fisiologico di condividere un punto di vista.
Scrivere di un viaggio è un modo per raccontare un paese, una situazione sociale, un popolo. Un reporter è uno spettatore impegnato che racconta i valori e le storie di altre culture. Chi scrive parte dalle proprie esperienze personali, frutto d’incontri con altri uomini, altri costumi, altri stili di vita. Chi lo fa è ossessionato dal voler comprendere il mondo contemporaneo. Il noi in rapporto all’altro. L’altro in rapporto a noi.
Quando essa assume una connotazione etnografica (etno-installazione), anche l’installazione diventa un reportage. Essa offre uno sguardo intimo verso altre identità con il gusto di penetrare dentro nuovi significati. Rispetto alle vetuste origini cartacee del reportage, l’installazione nasce come forma espressiva dell’arte contemporanea. Al monopolio dei grafemi si sostituisce l’assemblage, un intento di riunire varie forme di espressione in una sola opera. La materia è all’onore così come lo spazio. Si contestualizza ciò che altrove è stato decontestualizzato, si arrangiano oggetti che portano testimonianze. S’inscrive nella materia e nello spazio un discorso che altrove è messo in pagina. Il pubblico non è qui solo un lettore informato ma parte dell’opera stessa con la quale interagisce. Perché le installazioni vivono d’incontri, confronti e conflitti.
Oggetti[in]visibili – an intangible heritage[1] è un recente reportage sui fenomeni migratori contemporanei e la promozione del patrimonio culturale nell’era delle diaspore. La nostra ricerca prende spunto da una rinnovata lettura del patrimonio materiale proprio di ogni cultura. La nostra domanda è stata semplice: e se dietro un oggetto esodato non si celasse solo un proprietario, una funzione o una storia singolare? La risposta è stata osservare l’immigrazione attraverso i volti e le mani di chi manipola una materia culturale diversa dalla nostra ma che provoca a pensarci bene le stesse emozioni. Abbiamo così spostato l’attenzione dall’oggetto alla gestualità e all’espressività a esso connessi per indirizzare lo sguardo dell’osservatore sulla ‘diversa’ similarità che lo circonda. In tal modo si enfatizza l’uomo sull’oggetto: si smaterializza quest’ultimo per far apparire la ricchezza di gesti che si trasmettono da una generazione all’altra. Il patrimonio culturale diventa così vivente.
Chi si trova davanti a Oggetti[in]visibili – an intangible heritage è immerso in tre gigantografie. Quello che vede sono tre soggetti, quello che non vede sono gli oggetti che essi manipolano. Per scoprirli bisogna andare oltre le immagini, dove le loro parole li descrivono. Chi supera questa soglia è invitato a prendere parte a quel simposio di espressioni umane attraverso l’interazione, ascoltando, giocando, mangiando. Si tratta di oggetti d’uso contemporaneo (una sanza[2], un mahjong[3], un frullatore[4]) che ‘posano’ insieme a loro, che si integrano nella loro corporalità e intimità. Teodoro, Marco con la sua famiglia e Beatriz, i soggetti migranti, si mostrano in scene di vita quotidiana fatte di gesti, espressioni, stati d’animo. Sono ritratti in cui ci identifichiamo perché quei gesti, quelle espressioni, quegli stati d’animo sono anche i nostri: l’intimità di chi suona per sé scacciando pensieri, la spensieratezza di chi gioca in famiglia, l’orgoglio travestito da entusiasmo di chi cucina il suo piatto nazionale.
[1] L’allestimento è stato curato nell’ambito della grande mostra sulle diaspore [S]oggetti migranti – dietro le cose le persone, tenutasi al Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma dal 15 settembre 2012 al 2 aprile 2013. Realizzata da Marco Bacchin, Ilario de Biase, Valerio Lupia, Niccolò Mazzucco per Antrocom onlus.
[2] Strumento musicale africano a percussione. Si suona facendo vibrare con le dita le lamine di ferro. Il suo suono caldo accompagna in modo dolce e ritmato la voce di chi narra le storie della sua terra.
[3] E’ un gioco da tavolo cinese per quattro persone. Giocato utilizzando delle tessere e guadagnando punti creando opportune combinazioni.
[4] Il frullatore rappresenta la moderna versione del batán, la macina con la quale tradizionalmente si realizzava la Papa a la Huancayna, antico piatto della cucina peruviana.