Testo e foto di Barbara Leoni
Scenografia immortalata dal cinema di genere, intrappolata nell’immaginario collettivo. Risuonano le note di Ennio Morricone mentre si sfreccia sulla terra di fuoco, dove il sole brucia e la linea dell’orizzonte si offusca. È la terra del Southwest, arida, secca, dove gli spazi non sono definiti e la suggestione di un mondo ormai antico è tangibile nella polvere che si solleva, negli sguardi del popolo Navajo che la abita, nel rumore del galoppo di cavalli che corrono lontano, lungo la ferrovia. È un viaggio on the road dal Nuovo Messico attraverso lo Utah fino in Arizona, tra le meraviglie della natura, aspre, colossali e senza tempo, nel cuore della Navajo Nation.
Navajo Nation
Montagne, gole, canyon, altipiani, deserti e cavalli selvaggi, per un’area acquistata dagli Stati Uniti al Messico attorno al 1800. È più probabile sentire parlare la lingua nativa piuttosto che l’inglese nella Navajo Nation, la riserva indiana che unisce tre stati, Nuovo Messico, Utah e Arizona, istituita nel 1868 e che si estende per circa 65mila chilometri quadrati.
Window Rock, in Arizona, è la capitale, sede del governo tribale della Riserva, conosciuta fino al 1936 con il solo nome tribale “Ni Ałníigi”, che significa “centro del mondo”. Per i nativi è terra sacra, abitata da oltre quattro secoli quando si insediarono tra i tre fiumi Rio Grande, San Juan e Colorado: per questa ragione è vietato offenderla con comportamenti irrispettosi. Qui vige la legge navajo e il popolo conserva la propria lingua, cultura e tradizioni. Al turista è permesso visitare i molti siti naturali: monumenti nazionali, parchi tribali e archeologici appartenuti al popolo Anasazi, antenati dei nativi americani Hopi e Zuni, tribù che vivono nei Pueblos lungo il Rio Grande, in Nuovo Messico e in Arizona, e con cui i Navajo entrarono in conflitto, invadendo le loro terre. Per strada allora si incontra quasi unicamente gente del popolo Navajo, dalla carnagione scura e gli occhi intensi: al supermercato, nei fast-food. Vivono di allevamento, turismo e prodotti di artigianato tradizionale, vendendo dreamcatcher e gioielli in argento e pietra turchese. Questi non sono gli Stati Uniti futuristici, questo è il fermo immagine un po’ nostalgico di chi c’era già da prima e oggi la Riserva Navajo è un monumento a cielo aperto del patrimonio culturale dei nativi d’America.
I cavalli Mustang
Il termine spagnolo “mesteño”, indicava in Messico il bestiame smarrito, tornato allo stato selvatico. Se è vero che in nomen omen, i Mustang sono a pieno titolo quel che resta dello spirito selvaggio degli Stati Uniti, vessillo di una libertà da sempre vantata dal “Paese della frontiera”. La loro storia è fortemente connessa al territorio, una popolazione equina rinselvatichita, discendente dai cavalli spagnoli giunti in Messico nel XVI secolo. Eppure oggi nonostante il “Wild Horses & Burros Act”, firmato nel 1971 dal presidente Richard Nixon che dichiarava “i cavalli e gli asini selvaggi simboli viventi dello spirito storico e pionieristico del West, che contribuiscono alla diversità delle forme di vita all’interno della nazione e che arricchiscono la vita del popolo americano”, la loro libertà è minacciata dalle politiche federali e i cavalli selvaggi d’America rischiano di rivivere lo stesso destino toccato, due secoli prima, ai popoli nativi con la sottrazione delle loro terre.
La polvere del Nuovo Mexico
Il caldo soffocante è il compagno di viaggio attraverso paesaggi brulli e lunari che accompagnano la guida. Dieci giorni al volante che hanno inizio ad Albuquerque, per salire di qualche chilometro a nordest dove la capitale Santa Fe rende l’idea della forte influenza ispanica sul territorio. I colori pastello, l’architettura urbana, lo stile di vita e la lingua ufficiale dello stato, lo spagnolo. Burritos e cucina tex-mex condizionano con prepotenza gli odori, insieme ad uno stile di vita slow e le feste con musica che sono al centro della vita del paese. Fuori dalla città, il paesaggio è semidesertico con arbusti bassi e piante grasse, mustang, i cieli infiniti e qualche tipì indiano adibito all’accoglienza turistica per chi intende provare l’ebrezza di una notte sotto le stelle nell’immenso cielo blu.
Da Santa Fe, dirigendosi a poco più di sessanta chilometri a nordovest, si raggiunge il Bandelier National Monument, area che si estende sull’altipiano del Pajarito nelle Jemez Mountains lungo il Rio Grande e che preserva le abitazioni e il territorio dei pueblos ancestrali, i villaggi delle popolazioni antiche del Southwest, costruiti tra il 1150 e il 1600 a. C.. Sono ventitré le comunità indiane che vivono in Nuovo Messico: diciannove Pueblos, tre tribù Apache (Fort Sill Apache Tribe, Jicarilla Apache Nation e Mescalero Apache Tribe), e la Navajo Nation. Ogni tribù ha un proprio governamento, leggi, tradizioni e culture proprie. L’intera area che si estende da Santa Fe passando da Albuquerque fino a Gallup, al confine con l’Arizona, è costellata dai Pueblos ed è Acoma Pueblo il villaggio antico principale, abitato nel passato dagli indiani di lingua Keres fin da XII secolo e noto anche con il nome di Sky City poiché è arroccato su una mesa di arenaria che si erge verticalmente a duemila metri di altitudine e lascia senza fiato chi vi arriva dalla strada panoramica.
Ripercorrendo l’Interstate 40 da Albuquerque oltre Gallup, si prende la 371 all’altezza di Thoreau per dirigersi a nord, destinazione Bisti Badlands: una landa desolata e marziana, poco conosciuta e ancor meno visitata, dall’atmosfera straniante nel deserto del San Juan Basin, caratterizzata da formazioni rocciose ondulate di diverse gradazioni erose dall’acqua e dal vento. Uno spazio sconfinato, senza indicazioni o segni di orientamento dove la sensazione di perdersi camminando senza una meta mette soggezione.
Oltre Farmington, imbroccando la 64 verso ovest, si raggiunge Shiprock, in lingua navajo “Tsé Bitʼaʼí” che significa “roccia alata”: è un monadnock, una cresta rocciosa che si erge sull’altipiano desertico nella contea di San Juan e la vetta supera i duemila metri di altitudine. Luogo sacro per la religione e le credenze navajo, è un luogo di culto per i nativi che popolano la zona. Nessuna indicazione turistica incoraggia a intraprendere la sterrata che percorre il fianco della cresta fino a raggiungere il picco roccioso dove, ai suoi piedi, solo alcuni cavalli marchiati dai navajo vi scruteranno facendovi sentire di troppo.
La 64 procede verso nord per incrociare la 160 e raggiungere il Four Corners Monument, nei pressi della montagna di Ute, il punto di tangenza in cui si toccano i quattro confini di Nuovo Messico, Arizona, Utah e Colorado.
Attraversato il confine ci si trova nello Utah sulla strada 162 polverosa che porta a Bluff Fort, un fortino ricostruito a testimonianza della vita dei pionieri che arrivarono a Bluff attraverso l’Hole-in-the Rock Trail negli anni Ottanta del XIX secolo. Ci si dirige verso Mexican Hat, piccolo insediamento che deve il nome alla conformazione rocciosa situata nelle vicinanze e che ricorda la forma di un sombrero, tra punte, guglie, tavolati e canyon sulle sponde dello San Juan River e poi via, sulla highway 163 dove, a un certo punto, si staglia all’orizzonte la Monument Valley.
Arizona monumentale
È l’Arizona: maestosa, rossa come il fuoco con i suoi parchi naturali. Cartolina vista e rivista nei film di John Ford, Clint Eastwood, l’intero genere western ha trovato casa qui. Eppure nessuna assuefazione tradisce la sorpresa di fronte alla maestosità della scenografia che si presenta alla vista della Monument Valley: pianoro desertico di origine fluviale sul confine tra Utah e Arizona, le guglie, testimoni d’erosione, sono l’icona intramontabile del vecchio West. Gestita dalla Navajo Reservation, oggi è un parco tribale con ingresso a pagamento che è possibile visitare con la propria auto, oppure con le guide indiane in jeep o a cavallo. È qui che è possibile scambiare qualche parola con un anziano navajo.
“Il mio nome è Steven Goodman e vivo qui dal 1976 nell’area della Monument Valley dove allevo i Mustang. Noi montiamo a cavallo da sempre e ancora oggi utilizziamo le tecniche di addestramento tradizionale. Portiamo i soggetti giovani nello stagno e li immergiamo e poi montiamo loro in groppa per la prima volta. È un metodo naturale che rende tutto più facile.
Questa terra è ricca di cavalli, ce ne sono ovunque, giù nella valle sono selvaggi e possono scorrazzare liberi e li prendiamo per addestrarli. Alcuni di loro sono di proprietà, sono marchiati. Altri no, non sono di nessuno. Noi li impieghiamo per radunare le mandrie principalmente, ma altri li montano nei rodei e nelle gare locali.
Mio nonno mi assegnò il nome navajo Sale che Corre perché ero un ragazzino molto veloce e allora, visto che non mi era ancora consentito di montare a cavallo, quando dovevo radunare la mandria, le correvo dietro come un fulmine. Salt, invece, è il nome indiano della mia famiglia.
Quello che ci insegnò il nonno è che i cavalli sono la nostra vita, così come tutti gli altri animali. Siamo cresciuti insieme ai cavalli, fanno parte di noi fin da bambini. Così come le pecore e le vacche. È una questione di legame atavico e di rispetto. Questo è quello che abbiamo imparato e che tramandiamo alle nuove generazioni”.
Più a est, vicino a Page, l’Antelope Canyon è un altro tesoro della Navajo Nation. Costituito da due tratti differenti di arenaria erosa dall’acqua e dal vento e soggetti alle inondazioni improvvise, l’Antelope Canyon superiore è lungo 270 metri ed ha un accesso facile e veloce, mentre l’Antelope Canyon inferiore scende più in profondità per un percorso di oltre quattro chilometri non particolarmente agevole. Un luogo magico, da Indiana Jones, dove le volute di arenaria sono state modellate come su di un tornio impazzito e vengono battute ora qua, ora là, dalla luce che penetra dall’altro.
Sempre a Page, l’Horseshoe Bend, letteralmente “ansa a ferro di cavallo”, è un meandro a forma di U del fiume Colorado, circa otto chilometri a valle della diga di Glen Canyon e del lago Powell. La vista dall’alto, data la particolare conformazione della roccia dai colori saturi sulle sfumature arancio e il blu e verde smeraldo delle rive annulla una volta per tutte ogni limite allo stupore davanti alla meraviglia assoluta.
Da Page si scende in direzione Flagstaff fino a Cameron, vecchio avamposto dell’epopea di cowboy ed indiani. Prendendo la diramazione 64 si accede all’east entrance del Grand Canyon. Quando l’anima incontra l’infinito ecco che la natura sovrasta ogni opera umana. È il prodigio nella sua forma completa: una gola scavata dal Colorado nell’Arizona settentrionale, profonda oltre 1800 metri, di larghezza variabile, dai 500 metri ai 29 chilometri, e lunga 446.
Abitata dai nativi fino all’occupazione dei bianchi, il Grand Canyon è stato uno dei primi parchi nazionali degli Stati Uniti d’America e costituisce uno dei libri di storia geologica della Terra più completi di cui disponiamo. Una strada percorre l’orlo della riva sud ma l’emozione di percorrere a piedi la sua ripida discesa verso il fiume permette di provare una totale immersione con la natura nella sua massima espressione. Le due rive del North Rim e del South Rim sono attraversate da numerosi sentieri, dai più semplici ad altri estremamente ardui, a piedi o a dorso di mulo, con la possibilità di pernottare in alcuni lodge o in tenda.
Sulla Route 66, lasciando il Far West
Lasciando il Grand Canyon dall’entrata sud, si percorre la 64 in direzione di Williams, cittadina fondata nel 1881 e attraversata da un tratto della storica Route 66, dove le rappresentazioni di sparatorie e ruberie del West si mescolano con il mito della Beat Generation. A Williams tutto celebra la leggendaria strada che attraversa gli Stati Uniti d’America: diner, motel e negozi che vendono le icone inflazionate dell’indomita libertà, orgoglio e simbolo della nazione. La strada allora continua a scorrere, lunga e diritta: «Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati», «Dove andiamo?»,«Non lo so, ma dobbiamo andare», (Sulla strada Jack Kerouac). Perché da qui l’America non invecchia nella polvere del West, ma corre giovane e veloce verso la California.