Testo e fotografie di Alessio Duranti
Nel 2000 professor Asor Rosa scrisse un pezzo che si concludeva così: “avanza in Italia una nuova forma di pensiero fascista, che tende, per ora cautamente, a ricollegarsi all’esperienza storica passata e, appunto, a giustificarla, a raddrizzarla, a rimetterla sul piedistallo da cui era caduta. La manovra a tenaglia fra operazione politica e operazione intellettuale è di giorno in giorno sempre più evidente. E siamo appena all’ inizio”.
È questo uno dei motivi che mi spinge a ricercare nella memoria il nostro futuro, a documentare luoghi e volti: fotografare la memoria nella sua attualità.
Fotografare Auschwitz suscita sensazioni emotivamente coinvolgenti per il costante pensiero agli orrori che in questo luogo si sono compiuti. E in sottofondo risuona sempre la stessa domanda: è ancora possibile fotografare Auschwitz? Che cosa si può aggiungere a tutto quello che è già stato mostrato del luogo simbolo della Shoah? Come farlo rispettando il ricordo di tutti coloro che da lì sono passati?”
Ho cercato di cogliere il silenzio, il vuoto dei corridoi, delle baracche e dei cortili ma allo stesso tempo ho ritenuto corretto raccontare com’è oggi questo posto in una calda giornata di luglio, la vita che inevitabilmente portano con sé migliaia di persone che vengono qui ogni giorno”.
La fabbricazione delle lettere del cancello di ingresso fu affidata all’officina del Lager. Jan Liwacz (matricola 1010), fabbro e dissidente politico, nel forgiare le lettere incastonò nella parola Arbeit un errore: la B al rovescio come segno di ribellione alla disciplina e all’orrore del campo. Ovvero la B ribelle.