Testo e foto Di Valentina Valle Baroz.

Giovedì 15 novembre, bancarelle di Natale in allestimento, cielo ghiaccio e freddo intenso. Paris Photo, fiera dedicata alla creazione fotografica storica e contemporanea, apre al suo pubblico, per il secondo anno consecutivo all’interno del Grand Palais. Scendo alla fermata Champs-Elysées Clemenceau, alla mia sinistra l’Arc du Triomphe, alla mia destra Tuileries, Louvre e Place Vendôme. Se la città ha un centro, è questo.

Il palazzo è imponente, elegante, curato nei minimi dettagli, assolutamente perfetto. Le hostess sono tutte bionde, sembrano tutte sorelle. Varcata la soglia, unica, lo spazio è immediatamente diviso: al piano terra gli stands delle gallerie ad accogliere professionisti del settore, acquirenti e appassionati; al piano superiore, raggiunta da due scaloni in stile liberty, la VIP LOUNGE riservata a espositori, ospiti e stampa. Egualitario il Gran Palais, penso, oltre che assolutamente perfetto. Immediatamente vado a verificare che il mio badge mi garantisca l’accesso a entrambi gli spazi.

Mi siedo tra tacchi alti e giacche asimmetriche, faccio il punto della situazione, devo scegliere un criterio con cui affrontare questo parterre che mischia concettuale e realistico, nudi e fabbriche abbandonate. Tra poco inizia il primo degli appuntamenti della Plateforme, un incontro con Hilla Becher, fondatrice con il marito Bernd della Scuola di Düsseldorf, celebre per le fotografie in bianco e nero di edifici industriali. Presenti anche il fotografo Thomas Ruff, Christopher Phillis dell’International Center of Photography di New York e Roxana Marcoci, commissario del dipartimento di fotografia del MOMA. Discussione che ruota attorno all’arte concettuale e minimalista, all’evoluzione della fotografia archivistica, al passaggio dal bianco e nero al colore, alla mancanza di una dimensione politica dell’“oggetto fabbrica” in anni in cui, nella Germania della ricostruzione post-bellica, l’“oggetto fabbrica” una dimensione politica ce l’aveva eccome. La sala è gremita, la discussione in inglese, fa molto caldo.

Uscirò da questa conferenza affaticata e con la consapevolezza che la mia idea di affrontare “creativamente” la fiera è già fallita e lascerà presto il posto a un incedere anonimo regolato dall’ordine di apparizione delle gallerie sulla cartella stampa. Dura poco la mia creatività, in mezzo a quella degli altri. Il secondo appuntamento della Plateforme, che seguirò il giorno seguente, sarà meno impegnativo dal punto di vista nozionistico e più sentito da quello emotivo. Con l’artista libanese Akraam Zaatari e il duo creativo Broomberg e Chanarin si parlerà dell’importanza della fotografia archivistica, di quanto gli archivi possano essere al tempo stesso luoghi di immensa speranza e profondo dolore, memorie individuali che si fanno collettive e viceversa. Dal palco citeranno il mestiere dello storico, che è quello di far parlare il silenzio della storia e io penserò che sì, il mestiere del fotografo può essere anche questo, far riacquistare la vista alla cecità della storia, e che anche a me piacerebbe saperlo fare.

Le “nuove gallerie” che partecipano all’edizione corrente della fiera sono trentasette. Visito le prime due sulla lista, Bernard Bouche e Christophe Guye, fotografo fotografie, non mi dicono molto. Scorro il dossier de presse, leggo di Martin D’Orgeval della galleria Hussenot di Parigi, che ha lavorato in Africa e presenta per la prima volta in Europa “una nuova serie di immagini in cui tratta della percezione del vuoto e del pieno, del transitorio e del permanente, del visibile e dell’invisibile”. Ci vado, guardo una foto, un albero spoglio, suggestivo, rileggo il dossier. Temo di non capire la fotografia concettuale. Di suo però mi piace molto un lavoro del 2008, che recupero tra i cataloghi in esposizione. S’intitola Touché par le feu, documenta i danni provocati dall’incendio che il 1° febbraio di quell’anno distrusse Deyrolle, storico negozio parigino che dal 1831 offriva agli appassionati della “morte atemporale” un’impressionante collezione di animali impagliati e insetti sotto spirito. Forever is never, riporta la quarta di copertina, e nella copia che ho tra le mani c’è la dedica dell’artista ai galleristi: Pour Eric et Stéphanie, cet index mélancholique. È vero, queste foto sono pura malinconia, una celebrazione della vittoria della natura che, contro l’ostinazione conservativa dell’uomo, si riprende il diritto di far tornare cenere quello che cenere era, anche attraverso il fuoco se necessario. Ci sono altri cataloghi, ne sfoglio uno, mi sembrano solo pietre. Non si può avere sempre la stessa fortuna.

Continuo, osservo a lungo le foto di Georges-Tony Stoll della galleria Jerôme Poggi, che “considera la sua pratica come un percorso nel territorio dell’astrazione”. Cerco di comprenderne il messaggio, non sono sicura di riuscirci, non sono nemmeno sicura che esista una lettura univoca. Questo mi ha sempre disorientato nella fotografia concettuale (che poi, si chiamerà “fotografia concettuale”?), come nell’arte contemporanea in generale, la molteplicità di interpretazioni, un “bello” isolato, scollegato da quella realtà su cui sono sempre puntati i miei occhi. Provo impotenza.

La serie Bildanalytische Photographie 1968-1974 di Timm Rautert, che tratta della “sparizione dell’autore la cui presenza è rimpiazzata dal mezzo di espressione” mi piace molto. Non so se per i motivi “giusti” ma queste foto mi emozionano.

E poi viene la galleria Jerôme de Noirmont, che è un sospiro di sollievo. Le foto di Shirin Neshat tratte dalla serie Women of Allah e raffiguranti donne dal corpo ricoperto di versetti del Corano mi tranquillizzano, la ripetizione ossessiva della calligrafia persiana mi rilassa. So di cosa stiamo parlando, conosco quei segni, capisco i concetti di martirio, esilio e problematiche di genere che la fotografa iraniana vuole veicolare attraverso di essi. Bizzarra sensazione, di comprendere meglio il martirio della Neshat piuttosto che le scarpe da ginnastica di Stoll, e pensare che tra le due cose quella che ho provato sulla mia pelle non è di certo la prima. La tranquillità lascia il posto a un altro tipo di disagio, ben diverso dal timore di non comprendere appieno il significato di un’opera d’arte, un disagio noto, che nulla ha a che vedere con il luogo mondano e chic in cui mi trovo in questo momento. Scaccio il pensiero e mi affaccio alla performance dell’artista Robin Rhode che, vestito di nero su di uno sfondo nero, armeggia con una finestra bianca. Me ne vado quasi subito, sono le sette passate e la mia prima giornata al Grand Palais può anche finire.

Alcune fotografie tratte dalle sale di Paris-Photo (courtesy of the authors)

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Tornerò nei giorni successivi, per le foto esposte dalle novantun gallerie habituées della fiera che in un solo giorno sarebbe stato impossibile vedere, ma non avrò la stessa dedizione, quel che il primo giorno è stato imbarazzo si trasformerà in curiosità e poi addirittura in rifugio, irrecuperabile lo stupore. Col passare delle ore anche le cose meno conosciute inizieranno a trasmettere una sgradevole sensazione di già visto, già provato e di Paris Photo mi rimarranno le prime cinque ore che vi ho passato, la bellezza di fotografie di cui non afferravo il senso, l’eccitazione di aggirarmi in un luogo che ha visto l’Exposition universelle del 1900 e il sorriso che mi ha estorto a fine giornata la Tour Eiffel, all’uscita del Palais, quando nel buio mi ha puntato addosso il suo ciclopico occhio luminoso scintillando da dietro la Senna.

 

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