Testo e disegni di Samuel Bregolin.
05 agosto 2008
La furgonetta rallenta, un colpo sulla cabina metallica, noi fermiamo qui. Accosta, lungo il ciglio del marciapiedi, scendiamo tutti dal retro del furgone. Il rimorchio è aperto, un semplice cassone di ferro, con quattro misere sponde di legno. Si accalcano gli zaini pesanti, le mani, le Converse di gomma. L’aria è calda e secca, come siamo a terra l’autista riparte veloce. Non capita spesso di prender passaggi in molti. In una quindicina sullo stesso mezzo. Quando capita però il gruppo canta, salta, fischietta. Il vento tra i capelli e i capelli in faccia a qualcuno. Seduti su ginocchia, piedi e zaini. Accalcati, però tutti insieme.
Mi guardo attorno, dietro di noi si estende un rado bosco di eucalipti sul pendio di un colle, il suolo è rossastro, polveroso, alcune recinzioni di legno dividono in diversi appezzamenti il bosco. La strada serpeggia in leggera salita verso il borgo a poche centinaia di metri, mi smarrisco tra i vicoletti polverosi con bambini seminudi e sporchi che corrono di casa in casa, lavoratori che spostano lentamente carriole piene, massaie che lavano i panni.
Ritrovo gli altri un po’ tutti più tardi, lungo la strada, e decidiamo per un pranzo. Vedo più ristoranti che gente di passaggio. Sono uno accanto all’altro sulla stessa strada, ognuno con la griglia all’esterno, per poter sventolare nei dintorni i profumi della loro carne ai ferri. Tentano tutti di attirarci, me è un signore grassoccio di mezz’età a guadagnare le nostre simpatie.
Per noi una lunga tavolata, mangiamo carne di pecora e insalata di cetrioli e olive, guarnita da una gustosa seppur piccante salsa rossa.
Noto la conformazione del posto, non esiste porta d’ingresso, anzi non c’è proprio il muro d’ingresso. Il locale si apre come un garage senza saracinesca, pareti bianco sporco, che tendenzialmente tentano di scrostarsi sotto i vapori della cucina, posta nel fondo del locale, per arrivarci bisogna passare attraverso tutti i tavoli. E’ veramente minuta, con un paio di tavolacci in legno e una vasca di quelle che da noi si usavano per lavare i panni fino a non molto tempo fa, in ceramica smaltata, bianca. Con l’unico rubinetto, tra l’altro sgocciolante, del locale. Due i ragazzi che ci lavorano, sudati nell’atmosfera calda e umida, alcune risate marcano il tono delle loro discussioni. Il proprietario, il quale anch’esso si ferma di tanto in tanto a chiacchierare si alterna tra presenze silenziose alla cassa e il rinnovo della brace nella griglia all’aperto.
Mentre ormai terminiamo il nostro pasto notiamo una delle sedie che stiamo utilizzando, è una classica sedia di plastica bianca, come se ne vedono decine anche da noi. Rotta tra schienale e poggia braccio, ma legata con del cordino al fine di poterla riutilizzare. Mi fermo ad osservarla, da noi sarebbe stata certamente buttata, considerata ormai inutilizzabile, qui invece viene aggiustata,
ancora è buona, ci direbbero se chiedessimo. Segni di una profonda differenza culturale.
Sono succosi meloni che terminano il pranzo, nello spiazzo antistante al ristorante, alcuni di noi decidono di lavarsi i capelli, operazione non sempre facile in un viaggio di questo tipo. E’ proprio grazie alla sedia rattoppata, ad una bacinella e ad una confezione di shampoo omaggio che riusciamo a togliere qualche strato di polvere dalle chiome.
Ora il pomeriggio è tutto per noi, tra chi si addormenta all’ombra di un eucalipto e chi invece decide di passeggiare per il posto ci ritroviamo a fare il giro di tutti i bar locali. Variano poco i listini: caffè, tè, acqua fresca, coca cola, bibite zuccherate e volendo qualche biscotto.
Verso il tramonto, sempre tra un bar e l’altro, ci avviciniamo ad un grande struttura metallica che vedevamo in lontananza. E’ un binario sopraelevato, dove arrivavano i carrelli della miniera di carbone, venivano ribaltati da dieci metri d’altezza, immagino che il carbone alzasse parecchia polvere negli occhi dei stanchi minatori. Ora la miniera è chiusa da anni, e la grande struttura metallica viene utilizzata solo da qualche decina di cicogne sulla quale costruiscono i loro nidi. In lontananza il sole tramonta, la maggior parte delle cicogne rientra, i loro nidi si colorano di sfumature ruggine appese sugli ultimi raggi solari. Attraverso il bosco seguo con lo sguardo la rotaia rettilinea che taglia in due parti gli alberi, In lontananza, in un punto coincidente con l’orizzonte sembra di scorgere anche l’entrata della miniera.
Ci incamminiamo; poco lontano scorgo un venditore di ballini di paglia, è poco più che un ragazzo, e probabilmente passa lì tutto il giorno. Nella zona ancora molta gente si muove a cavallo d’asino, e questo sembra essere una sorta di distributore locale. Ogni tanto qualcuno a dorso d’asino si ferma, fa il pieno di paglia e riparte. La più grande differenza che noto e che qui non lasciano i bollini per la raccolta punti.
Alla sera, abbandonando l’idea di raggiungere il mare, lontano solo pochi chilometri, per un bagno notturno, ci mettiamo a riposare nella piazza principale. Alcuni ragazzi si avvicinano mentre tiriamo fuori tappetini e sacchi a pelo, ci propongono della birra. Una cosa per noi europei tutt’altro che pericolosa, ma non in Tunisia, paese arabo, dove l’alcool è vietato. Quello che ci propongono è di contrabbando. Ma non impiegheremo molto nel proseguo del nostro viaggio per capire che qui il divieto non è così rigido come in altri paesi mussulmani. Cominciamo a trattare con loro, è impensabile acquistare qualcosa, anche un prodotto di contrabbando, senza aver prima tirato sul prezzo.
Dopo un po’ però si spaventano, forse perché il paese è piccolo, e tutti sanno che di fronte a 22 occidentali avrebbero tentato di vendere birra e si sentono osservati. L’affare salta.
In effetti quella notte alcuni ragazzi vegliano la strada, hanno anche un paio di bastoni, dicono di esser lì tutte le sere, pagati dai negozi e dai ristoranti per proteggere la strada da possibili ladri, ma da come si muovono non si direbbero proprio nel loro quotidiano essere. Durante la notte, una volta ogni ora, la furgonetta della polizia passa a gettare un occhio per assicurarsi della nostra salute.
Sembrano essere in realtà tutte misure repressive per impedire alla gente di avvicinarsi a noi. Siamo considerati pericolosi, anche se non riesco a capire per cosa.
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…E’ il capo della polizia regionale a presentarsi a noi come responsabile della sicurezza dei turisti, tale Nordine Dreifiusse. Si sposta con una Volvo beige anni ottanta, esattamente quella su cui ci si può aspettare di vedere l’ispettore Callaghan, parcheggia a una decina di metri da noi, scende. E’ un uomo sulla quarantina, capelli bianchi, corti, di carnagione chiara, faccia quadrata con lineamenti decisi ma dolci. Indossa pantaloni chiari e una camicia maniche corte a righe bianche e azzurre.
Quando esce dall’auto si guarda attorno, fa l’ultimo tiro di sigaretta. La getta a terra e la spegne con la punta gommosa della scarpa in pelle nera. Chiude la portiera, si riguarda attorno, ci osserva, si avvicina e si presenta col sorriso. “Nordine” dice “della polizia, responsabile della sicurezza dei turisti in questa regione”. Nordine è un uomo solido, deciso, ben educato e tollerante, ben consapevole della realtà del suo paese e delle sue problematiche. Con noi sembra disponibile al dialogo, almeno nella misura dovuta. Con lui riusciamo a ritrovare la conversazione con la legge.
Sopratutto ci stupirà il ritrovarlo giorno dopo giorno nei luoghi e nei momenti più impensabili. Ritrovarlo accanto a noi all’alba, al nostro risveglio, oppure vederlo comparire di sera, quasi per augurarci una buona notte. Assurdo rincontrarlo lungo il corso di una città a duecento chilometri di distanza, seduto al tavolino del bar con caffè e quotidiano. O chiedere ad alcuni pastori di offrirci qualche biscotto e un pò di latte per la colazione.
Per noi si è mobilitato in quei giorni, con noi ha chiacchierato e discusso, l’abbiamo tirato fuori dagli uffici e portato in strada lungo tutto il tempo del nostro viaggio nella regione. Ad un certo punto mi è sembrato quasi più un carovaniere adottato che un poliziotto attento alla nostra sicurezza.
Quella prima sera però i compromessi sono stati difficili da raggiungere.
“Dove intendete dormire?” comincia.
“Laggiù, In spiaggia”.
“quella spiaggia” dice “ è pericolosa, siamo vicini alla frontiere”. Poi tace.
“quali pericoli?”, “contrabbando?”. Finge di non sentire.
“Alé, chiamo un taxi, e vi faccio portare a Tabarka”.
Ci obbliga a salire sulle furgonette e ci porta a Tabarka città. Sicuro che una volta lì saremmo andati a dormire in qualche pidocchioso albergo a mezza stella sul lungomare.
Fortunatamente una volta in città è facile eludere sorveglianza e ritornare alla spiaggia.
Quando arriviamo l’aria è fredda, stappiamo un paio di bottiglie di vino, non c’è traccia dei pericoli che avremmo potuto incontrare. Il luogo sembra completamente deserto. Cantiamo a squarciagola tutta la notte e ci addormentiamo sui nostri sacchi a pelo attorno alle braci del fuoco spento.
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Samuel Bregolin è un giornalista indipendente, reporter freelance e viaggiatore.
Ha viaggiato in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Marocco, Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Romania, Bulgaria, Grecia, Turchia, Egitto e Tunisia. Raccontando le sue esperienze di viaggio su blog personali, riviste on-line e cartacee. Collabora con «Il Reportage», «National Geographic» e «Qcode Magazine».
Continuerò a viaggiare e a voler raccontare i miei viaggi, sperando che continuino con la carovana e San Calogero. Ma solo come una peregrinazione personale. Come un personale bisogno di ricerca spirituale. Avevo un debito nei confronti della Tunisia, avevo preso vita, esistenza, esperienze, per il mio beneficio. Senza aver lasciato abbastanza in cambio per pareggiare la bilancia. La mia unica possibilità è adesso scrivere questo diario. E diffondere la mia esperienza.