Testo e foto di Carlotta Pianigiani.

Quando sono arrivata a Sarajevo pioveva forte. Un muro d’acqua infradiciava la terra, entrava nei vicoli, gonfiava la Miljiaca mentre rigagnoli di fango scorrevano sui ciottoli del quartiere turco, bagnando il pelo a qualche cane randagio mentre la gente si affollava nei bar con i vetri appannati e una catasta di ombrelli fuori dalla porta. Bevevano il loro caffè, una brodaglia scura che si versa dall’alto mentre le tazze argentate scintillano e una zolletta si squaglia nel fondo del bicchiere. Bevevano in quei posti fumosi dove il giorno sembra uguale alla notte, dove inizi un discorso per finirne un altro, dove il tempo non esiste e la testa vortica di ricordi.

Quando sono arrivata a Sarajevo non avevo l’ombrello, l’acqua mi colava lungo il collo, bagnandomi gli occhi, mentre correvo, una mano sul muro e l’altra sulla sciarpa che mi ero messa in testa.

1-1-2Monto su un taxi per proteggermi dall’acqua, mi infilo in una Volvo che mi accompagna per un paio di marchi. La macchina scivola veloce lungo il viale dei cecchini, è una strada ampia, trafficata, piena di edifici grigi feriti dalle granate. I muri sono tutti crivellati, i pezzi di intonaco caduti lasciano spazio ai fori dei proiettili, qualche grattacielo moderno fa da sfondo ai minareti e alle cupole di piombo. Vedo l’Holiday Inn, una mattonella gialla contro al sole. So che durante la guerra era una sorta di porto franco che non veniva bombardato perché c’era la stampa estera. Mi immagino un’oasi felice, piena di cibo e di telefoni satellitari e giornalisti che lavorano nella tranquillità delle loro stanze mentre fuori l’orrore imperversa. E’ ancora lì, quell’edificio anni ’70, grigio e immobile, sfottendo tutto il resto. Appena risaliamo la collina, un cimitero si apre davanti a noi. Il governo bosniaco per accogliere tutti quei morti, ha dovuto infilare tombe ovunque. Ed è per questo che campi da calcio, colline e vecchi cimiteri sono stati tappezzati da piccole steli bianche e regolari coperte da scritte arabe. Mi fanno pensare a una fila di dentini da latte, da bambino che sbuca dal prato erboso.” Sarajevo è la città con più cimiteri al mondo”, questa frase mi rimbomba nella testa, tanto vera, quanto spettrale. Mi diverto a contare le tombe, a guardare i nomi dei morti, a sussultare perché hanno tutti più o meno la mia età. Cammino sui ciottoli che pavimentano il quartiere musulmano, mi infilo nella piazza principale. Capisco presto perché si chiama “piazza dei piccioni”, ci sono venditori di semini e mangime che i bambini spargono per poi correre facendo scappare gli uccelli. Mi siedo ad un tavolino e ordino cevapcici, la carne speziata contrasta con il dolce del kajmak, un formaggio cremoso e con la morbidezza della pita. Butto giù tutto senza pensare, sorridendo a bocca piena davanti a quella città che si inginocchia davanti al mio cuore. Guardo gli edifici bombardati, i buchi nel cemento, le rose di resina rossa che ricoprono le ferite lasciate dalle granate. Sento cantare il muezzin, la voce lamentosa riempie le strade e i vicoli mentre la gente continua a vivere. Guardo le scarpe fuori dalle moschee, i fedeli che si lavano alle fontane, le ragazze con i veli e quelle senza sedute nei cortili. Non mi fanno entrare per vedere le decorazioni geometriche, c’è un orario riservato ai turisti e io non voglio offendere nessuno. Questa città che si inerpica sulle colline, è un calderone di emozioni e cultura.

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Ortodossi, cattolici e musulmani condividono le stesse strade, vittime di una pace conquistata con il sangue. Entro in qualche chiesa, guardo le candele nella sabbia che ho visto per la prima volta a Kiev. La cera gialla cola e si incolla al terriccio mentre le fiammelle danzano allegre, donando una luce surreale. Esco e mi infilo in una pasticceria. Strati di pan di spagna si alternano a creme al burro e a marmellata mentre la granella di nocciole ricopre tutto il resto.  Ne faccio fuori un paio, senza parlare pensando che in questo paese tutto è perfetto. Infilo la forchettina nella glassa, guardo i solchi che lasciano i tre dentini argentati, la porto alla bocca e butto giù tutto, schiacciando il boccone contro al palato. 1-4Mi infilo nel primo museo, parla della strage di Srebrenica. Leggo cosa è successo su uno schermo luminoso, le mani strette a pugno, le unghie infilate nella carne. Allora mi perdo pensando alla gente, agli sfollati, ai morti e alle lacrime, accarezzo con gli occhi foto di tombe, di sguardi spauriti, di scritte razziste.

Me la prendo con l’Europa che ha permesso migliaia di morti prima di intervenire e farne altrettanti. Penso a Sarajevo, alle file per l’acqua, al cibo che manca, ai vetri in frantumi, penso alla gente che scappa ai semafori, ai tonfi delle bombe, ai lampi nella notte. Penso alle gambe che saltano per le mine, alle fasciature di fortuna, alle bende sporche, alle croci rossi sui kit d’emergenza. Penso alle finestre di plastica dell’UNCHR, ai ciocchi di legno in mezzo alle cucine, alla città che nonostante tutto va avanti. Mi immagino una macchina che scivola veloce lungo il viale dei cecchini, a duecento all’ora, con il naso incollato al tappetino per i piedi, l’aria calda del respiro che sbatte e ricade sulle guance, per paura dei proiettili. Penso al sangue sulle strade, nelle pozzanghere, nei mercati, sulla neve, penso alle fosse comuni, penso all’odore dei corpi malsotterrati, alle file di tombe candide che recitano tutte 1992.C’è una foto che mi ha colpito in particolare, è esposta al museo della storia della Bosnia, in un edificio ingiallito dal tempo. Il governo bosniaco ha deciso di lasciarlo così com’è, ha deciso fosse compito dei buchi nei muri raccontare la storia. C’è una donna al centro dell’immagine, sta attraversando le strisce pedonali, ha i tacchi e la sua bambina in braccio. Corre, la testa bassa, lo sguardo sull’asfalto. Con le mani copre il collo della figlia, protegge il suo punto più vulnerabile, sacrifica se stessa per salvare lei. Non so se sono riuscite ad arrivare all’altro marciapiede, non so se ancora sono vive. Cammino sul pavimento rovinato, vedo una mappa. Credo sia una cartina idrografica, ci sono linee nette e scure che si intersecano, formano geometrie strane. I cetnici le usavano per piazzare le mine, per non bucare la terra sbagliata, per non riempire d’acqua il mortaio. Durante la guerra la Miljaca si è riempita di corpi, gente di nessuno, figli senza padri che bloccano il fiume. I corpi si sono fusi con un reticolo infinito di strade d’acqua, hanno sporcato gli argini come fossero vita che scorre dentro e fuori, diventando superfici dove la guerra scava intricate trame sulla pelle. Quel fiume che oggi urla per la pioggia, si è riempito d’odio, ha mutato un corso già tracciato, trasportando frammenti che si mischiano a vite di altra gente.

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Le storie di queste persone mi scorrono sotto alla pelle e mi bruciano il cuore, si respirano nell’aria e si mischiano all’odore della carne speziata” Non devo lasciarmi scoperchiare da questa città”, diceva Gemma. Io gliel’ho permesso, invece, perché gli orrori sono parte di questo popolo, si intersecano nella vita di ognuno, uccidono la ragione e la logica Non si deve dimenticare, penso, mentre ascolto il rumore dei miei passi che rimbombano nel museo.

 

Carlotta Pianigiani, 22 anni, neo infermiera di Arezzo.

Scrivere è la cosa che sa fare meglio. Scrive in ogni pezzetto di quaderno, nel computer, mentre aspetta qualcuno, tra una lezione e l’altra. Ci incanala gioie e dolori, urla e risate, scrive per buttare la sua rabbia sul foglio, per eliminare i fantasmi delle sue notti, per fare chiarezza su ciò che popola la sua testa. Scrive, viaggiando perché ogni viaggio rimane dentro, graffia l’anima e regala una boccata d’ossigeno contro le nuvole invernali.