Testo di Monica Pavani

Foto di Louise Roberts

Port Eliot è una tenuta che si trova in un piccolo paesino nel sud-est della Cornovaglia chiamato St Germans. Oasi di pace e natura poco distante da Plymouth (il porto da dov’è partita la Mayflower), quest’anno ha ospitato la tredicesima edizione del festival omonimo, Port Eliot. Scaturito nel 2003 dal precedente The Elephant Fayre – che a partire dagli anni Ottanta si era imposto come un festival blandamente rivoluzionario e restava impresso nella memoria di molti affezionati frequentatori – Port Eliot non si impone certo come una nostalgica rivisitazione dei bei tempi andati, ma sprizza di un’energia vitale tutta sua, dirompente e divertita.

Il luogo stesso, Port Eliot, è una dichiarazione di resistenza al tempo e ai saccheggi della storia. Abitato fin dall’età del bronzo, ha ospitato monaci agostiniani, è sopravvissuto alla confisca da parte della Star Chamber (il tribunale della Camera Stellata di Carlo I), e venne addirittura definito il luogo più bello di tutta l’Inghilterra da Napoleone esiliato e in fuga da Plymouth dopo la sconfitta di Waterloo del 1815.

Foto di Monica Pavani

Boschetti, colline verdissime che la pioggia – a intermittenza, ma più spesso con insistenza, perlomeno nei primi giorni di questa edizione – mantiene di quel colore vivo, brillante perfino col brutto tempo, che alla prima spruzzata di sole trasmette un senso di esaltazione. Il piccolo fiume Tiddy si insinua delicatamente nel verde con acque basse, disegnando anse e curve azzurro intenso che ricordano la bellezza appartata e meno accesa del nostro delta padano.

Il Port Eliot festival è dunque un’allegra riserva di pacifismo, protesta politica dai toni decisi ma mai aggressivi né tantomeno rabbiosi, e ricerca di benessere fisico e mentale per esseri viventi di ogni età. C’è chi arriva qui in treno o in auto da luoghi poco distanti, o dalla vicina Plymouth, ma anche chi viene da altre regioni, o da paesi lontani. E c’è chi resta un solo giorno, chi va e viene o chi rimane per l’intera durata (da giovedì 26 a domenica 30 luglio), magari in tenda. L’accesso al luogo del festival è a pagamento ma, nonostante i prezzi non siano bassissimi, il sold-out arriva molto prima dell’inizio. È davvero il festival della Cornovaglia, e ne trasmette tutta la fierezza, lo slancio propulsivo e creativo, che dall’ambiente circostante filtra negli animi e viceversa, per un naturale processo di osmosi. Questo assaggio di paradiso in terra si compone di una magione, di giardini contenuti fra mura antiche, di un grandissimo parco che asseconda le ondulazioni collinari del luogo, su e giù per sentieri coperti dagli alberi, cui si va ad aggiungere l’estuario del fiume, dalle cui rive si intravedono i resti di un antico viadotto romano.

Foto di Monica Pavani

Il titolo dell’edizione di quest’anno, “Summer of Love” – che sarebbe stato assai gradito anche ai Figli dei Fiori – trova tuttavia una vera corrispondenza nella gamma di attività ed eventi che vengono proposti. C’è l’area della House dove si tengono le mostre; c’è la Church, dove avvengono incontri; il Caught by the River, dove si possono ascoltare concerti di gruppi emergenti e letture di poesia; il Bowling Green dove scrittori e scrittrici affermati vengono intervistati da giornalisti e critici, l’Hullabaloo dove i bambini sono impegnati in ogni tipo di attività ludica e creativa; il Lark’s Haven dove si pratica lo yoga; il Sauna Corner dove in tinozze di legno ci si immerge in acque calde e rigeneranti; il Boogie Round dove si balla fino a tardi; un piccolo Poetry Stage dove si ascoltano versi; un’Idler Academy (letteralmente, l’accademia degli oziosi), il cui scopo è “aiutare le persone a condurre una vita più soddisfacente”, e la cui attività, oltre che in conversazioni dal vivo, si concretizza in una rivista quadrimestrale, e una serie di guide del buon vivere; il Walled Garden dove ci sono presentazioni di libri che si possono acquistare autografati in un bookshop poco distante; e corsi di cucina, incontri di filosofia, sfilate di abiti di design alternativi, botteghini di vestiti artigianali, hamburger cucinati con la carne locale, derivante da bestiame allevato secondo tutti i crismi salutari che nei supermercati vanno perduti, sidro della migliore qualità – da quello poco alcolico a quello altamente inebriante – gin che si produce lì nei pressi, che si può sorseggiare adagiati sugli sdrai che guardano il fiume Tiddy… insomma, chiunque può usufruire di un angolo di immediato benessere personalizzato.

Foto di Monica Pavani

Disseminata per i vari luoghi del festival, c’è anche un’intera sezione chiamata ‘Words’, che racchiude vari incontri dedicati ad autori e autrici che scrivono sia in prosa che in poesia. Sento le voci poetiche di Martha Sprackland e Sophie McKeand. Mi colpisce il tono affermativo ma niente affatto narcisistico con cui si fanno portatrici dei loro versi: Martha descrive con ironia ed emozione lo sfracellarsi di molti oggetti, tecnologici o meno, nel nostro fragile mondo quotidiano; Sophie invece declama a memoria, con grande presenza e vigore, versi ritmici e a tratti dissonanti, inizialmente più di protesta, poi più attenti alla moltitudine di suoni che ha raccolto in India, e che lei mescola con la sua poesia. Evita accuratamente gli intellettualismi, che molti imbracciano quale arma contro paure di ogni genere, e invoca mescolanze, immersioni e ascolti profondi in forma di preghiera.

E intanto piove, piove sui boschi, sulle tende, sui bambini e sui poeti, mentre l’addetto stampa mi conferma che – dal punto di vista meteorologico – sono riuscita ad azzeccare la peggiore edizione da sempre; e vorrei tanto aver saputo prima che un paio di stivali di gomma erano necessari per non sguazzare nella melma, o almeno mi piacerebbe essere sufficientemente attrezzata di spirito anglosassone per riuscire a camminare tranquilla nel pantano armata solo di infradito, o addirittura scalza, come vedo qualcuno fare con invidiabile disinvoltura. E invece procedo nel disagio delle scarpe inzuppate e del timore di ammalarmi. Ma in realtà resisto benissimo, e il Port Eliot Festival è talmente ricco e salutare che a quanto pare è in grado di proteggere i suoi visitatori anche dal più blando raffreddore.

Venerdì 28 al Bowling Green è previsto un incontro con la scrittrice Michèle Roberts, intervistata da Suzi Feay, una giornalista particolarmente versata in fiction e poesia che collabora con varie testate, fra cui The Independent, The Guardian e The Financial Times. Michèle Roberts, di origine anglo-francese, ha una scrittura passionale sia per le emozioni che suscitano i rapporti fra i suoi personaggi che per il linguaggio sensuale con cui racconta e descrive i luoghi.

È appena uscito il suo quarantesimo libro, il romanzo dal titolo The Walworth Beauty, ed è a Port Eliot per presentarlo. Due storie intrecciate, fra passato e presente: nel 2011 Madeleine perde il lavoro come lettrice e decide di abbandonare il suo appartamento nel cuore della City per trasferirsi a sud di Londra, dove a poco a poco sente serpeggiare per le vie una vita invisibile e misteriosa che non aveva immaginato; nel 1851 Joseph Benson, un ricercatore che è stato incaricato di scrivere alcuni articoli sulle classi lavorative che abitano nella zona di Southwark, si aggira per le vie ed entra in contatto con le prostitute che vi svolgono la propria attività, restandone segretamente attratto.

Michèle, che da poco – come sottolinea l’intervistatrice – al pari della protagonista del suo libro ha “attraversato il fiume” e dal nord si è trasferita nel sud-ovest della capitale inglese, ha colto lo stimolo di vivere in una zona da sempre ritenuta una wasteland degradata dalla Londra più snobbish. L’ha sentita abitata da fantasmi del passato a cui ha voluto dare voce combinando l’invenzione narrativa con la ricerca storica. Si parla di vite nascoste, di chi un tempo era street walker perché dedita alla prostituzione, e di chi oggi può passeggiare come flaneuse, e osservare con curiosità la città che cambia, di uomini femministi ante litteram, della finzione necessaria di calarsi in altre voci e epoche, cercando possibili linguaggi con cui chi non ha avuto parola può trovarla ora, grazie alla letteratura. Colpisce come anche fra il pubblico ci siano giovani artisti e artiste già molto consapevoli della loro ‘vocazione’, che dialogano senza troppa timidezza con chi li ha preceduti e continua la sua strada.

All’estremo opposto – ovvero un grande artista che ha sempre cercato di prendere in contropiede la sua vocazione, non cavalcando il successo ma schivandolo puntualmente per passare oltre – si colloca invece Stephen Duffy, il paroliere e cantante dei Duran Duran, che abbandonò il gruppo a soli diciannove anni ancora prima che riscuotessero il più stratosferico successo.

Stephen ha occhi ipnotici, con una luce che a tratti cede a un’ombra piuttosto fitta, ma si riaccende velocemente come accade a chi è perseguitato da un qualcosa di ignoto, che è insieme tormento e dono di un’inesauribile creatività. E così in effetti è Stephen – incalzato da un’eccezionale intervistatrice, Miranda Sawyer, giornalista radiofonica e televisiva – fa continuamente riferimento alla parabola della sua vita, che anche gesticolando disegna come un tracciato insensato a montagne russe che lo ha portato a raggiungere vertici altissimi in giovanissima età e poi, apparentemente, non ha fatto che spingerlo in giù, come uno di quei mostri dei film di terrore che rispuntano ad ogni angolo con le loro grinfie. Successo, soldi a cascata, e cocaina, ecstasy, alcol, depressione… ha vissuto tutto, continuando a scrivere, a cantare, cercando una musica che fosse avanti nel tempo, annoiandosi tremendamente a replicare quella che il mercato chiedeva. Ha collaborato e composto insieme ad altri artisti, non ultimo Robbie Williams, scrivendo insieme a lui l’album Intensive Care, che ha riscosso un enorme successo. Stephen Duffy è il nome che sta dietro agli altri sotto le luci della ribalta, che si vede sempre al lavoro nei backstage, ma anche il genio inquieto e costantemente insoddisfatto nell’ombra. Ora vive con moglie e figlia in Cornovaglia, e commuove il pubblico dicendo che ha trovato una felicità che non avrebbe mai immaginato, che non è solo la fine della depressione, ma uno stare bene con la sua vita che da giovane non sarebbe riuscito nemmeno lontanamente a ipotizzare.

I rovesci di pioggia si fanno così forti che gli spettatori si stringono fra loro sotto il tendone che, sferzato com’è dal vento, fatica a proteggere dall’acqua, e l’intimità di quella vita messa a nudo si fa ancora più toccante. Giù per i sentieri c’è chi arriva proprio in quel momento, sguazzando nelle pozzanghere, e altri che corrono via per cercare riparo. Ma il Port Eliot Festival continuerà imperterrito, ancora per due giorni, a dispensare i suoi efficacissimi antidoti naturali alle mille e mille forme di male di vivere che possono cogliere su questa terra.