Una recensione di Domenico Scarpino.
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Capitani Coraggiosi è un romanzo di fine ottocento di Rudyard Kipling. È un romanzo d’avventura e di formazione. Racconta la storia di Harvey Cheyne, un ricco e viziato rampollo americano che durante un viaggio in Europa cade in mare e viene salvato da un peschereccio dal nome emblematico: We’re Here. Qui affronta la vita per la prima volta. Uomini duri e rudi e l’immensa fatica della pesca in mare aperto. Qui si compie la sua formazione virile, attraverso un viaggio avventuroso fatto di tempeste e pericoli di ogni genere. Impara a rispettare gli altri e ad affrancarsi dall’inettitudine e dalla superbia. Non è un caso che il peschereccio si chiami proprio Noi siamo qui.
Guardando Point and shoot, il documentario di Marshall Curry vincitore al Tribeca Film Festival e presentato in anteprima nazionale al festival di Internazionale di Ferrara, ci si rende subito conto che l’impianto narrativo è lo stesso. Matt VanDyke è un timido ragazzo americano di una “normale” famiglia americana dei giorni nostri. È affetto da DOC, cioè da un disturbo ossessivo compulsivo, si lava le mani di continuo, non tocca le cose, ripete alcuni gesti all’infinito e così via. Si ritiene incapace di vivere e decide per questo di fare un viaggio di sopravvivenza in Medio Oriente. Un viaggio che deve essere la sua formazione virile e la rinuncia ad una vita comoda e senza stimoli. Parte con una motocicletta e soprattutto con una videocamera. Dal Marocco all’Afghanistan. Un viaggio temerario, senza agenzie o alberghi di lusso. Tutto filmato. Inquadrato e ripreso. Migliaia di ore di riprese video lungo migliaia di chilometri.
La videocamera è l’elemento discordante, quello che rende il viaggiare qualcosa di più rispetto alla “semplice” ricerca dell’avventura. Matt, filmandolo, rende il suo viaggio estremamente moderno. Riesce a fare esperienze che altrimenti gli sarebbero precluse, come partecipare ai conflitti di Iraq e Afghanistan, e lega la sua formazione al fatto di filmarla. Si esiste solo se documentati attraverso le immagini. L’avventura acquista un senso e al tempo stesso lo perde proprio perché ripresa da una telecamera. Quello che ci viene mostrato da vita reale si trasforma ben presto in cinematografia. Le scene assomigliano sempre di più alla finzione di un film. Il dilemma principale di Matt, quindi quello che possiamo definire il tema del film, è se si vive davvero un evento mentre lo si sta riprendendo.
Quando Matt VanDyke, dopo essere rientrato dal suo viaggio, ritorna nuovamente in Libia per combattere “veramente” al fianco dei ribelli della rivoluzione della primavera araba è indeciso se distruggere o meno la videocamera, per poter vivere davvero come un rivoluzionario. Guardare la realtà significa viverla? Matt è un uomo diviso tra i due significati di Point and shoot, “inquadra e scatta” o “punta e spara”. Non è un caso che il climax finale della narrazione arriva nel momento in cui si trova a dover sparare ad un cecchino guardandolo in faccia. Su questo tema l’operazione di ricostruzione che compie il regista Marshall Curry si fa strepitosa, le immagini che ha girato Matt sono vere, ma attraverso il montaggio le scene delle battaglie, il sangue e i mortai che esplodono, diventano finzione cinematografica nonostante non lo siano.
Siamo catapultati in un modernissimo film di guerra hollywoodiano e Matt rimane nella sua indecisione. In una mano il fucile e nell’altra la videocamera. In Libia ha trovato gli uomini e la vita, è il suo We’re Here, ma alla domanda finale se abbia, dopo anni di viaggi e guerra, finalmente completato il suo percorso di virilità, non risponde, lasciandoci con un bellissimo finale aperto. Racconto, cinematografia, vita.
Sito del film
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Domenico Scarpino
Sono videomaker e sceneggiatore. Realizzo cortometraggi e video a carattere sociale. Cerco di coniugare la “meravigliosa” passione per la narrazione ad una caparbia velleità da cineasta. Il tutto condito con un “malsano” interesse per le tecnologie audiovisive