testo e foto di Carla Oppo
A Porto l’Oceano ci è piombato dritto in faccia. In una mattina d’autunno, di quelle col maglione, il viso caldo, un cappotto sottobraccio. Praticamente una festa. Le onde rigurgitavano i loro mali, noi ci leggevamo i nostri. Ma quella lava bianca montava come una liberazione. Istantanea: sul molo il pescatore più giovane butta un polpo sull’asfalto, un bambino si perde tra i tentacoli, il padre scatta una foto.
Era presto per mangiare, l’ora esatta per bere. Scegliamo il bar più spoglio, tavolini fuori. Ma io entro, cerco il bagno, supero un bancone di legno e qualche commento alcolico in portoghese. Poi, un mondo. Una bettola fragorosa, straripante. Semplice, povera, fumosa. La signora Natalia ai fornelli, sembra un quadro lusitano. I pentoloni ribollono. Stufati di carne da una parte, pesce alla brace dall’altra. Gli uomini in tenuta da lavoro sono curvi sui loro piatti benedetti. Spezzano il pane con le mani sporche di calce. È un posto perduto, mi muovo nella storia. Coi ragazzi basta uno sguardo: vino, stufato di carne, seppie e sardine alla brace. Altro vino. Io, Marco e Alessio, assaporiamo l’Oceano. La tavola accresce la nostra intesa: siamo su di giri, e non è un’euforia tannica, ma di gusto, freschezza, atmosfera. Le patate e i peperoni hanno scambiato smisurate confidenze col pesce, che scopro la forza del piatto unico: non esistono gerarchie, ogni boccone appartiene all’olimpo. Salutiamo il posto più magico della periferia e ci buttiamo lungo il Dauro, il fiume incantato, nel cuore della città.
Voliamo dritti alle cantine di porto. Una lacrima di vino vien giù densa, striscia sulle pareti del bicchiere a lacerare i miei ricordi. La sera c’è la proiezione di “Fuori Programma” al Family Film Project. Il mio, è un corto d’archivio e fantasia. Riciclare, riappropriarsi delle immagini, dar nuova vita alle cose.
Arriva Vale, quel sole che batte sempre sul mio viso. Gli occhi di ieri mentre ci perdiamo tra i vicoli. Dopo la proiezione siamo invitati a una cena/performance di un’artista di origine iraniana. Siamo in cerchio, scalzi, seduti a terra su cuscini morbidi, mentre la ragazza si cosparge il corpo di ingredienti sconosciuti. Dietro di lei scorrono vecchi video amatoriali delle sue cene di famiglia. Mangiano, bevono, ballano. Insieme. Il padre è un trascinatore. Li vediamo festeggiare, di decennio in decennio. Sono iraniani, ma nell’ultimo video pranzano in una casa di Londra. Lasciare Teheran non dev’essere facile. Improvvisamente ci vengono servite zuppe di soia e melanzane, riso aromatico, tè caldo, chicchi di melograno. La sala si riempie del profumo di cene persiane, intimità incastrate nei filmini di famiglia. Nuova vita, tavole migranti.
Per il resto dei giorni ci insegue l’odore di pesce fritto che rende densi i vicoli. Io e Vale ci raccontiamo col fiatone; le salite sono strette, illuminate dai lampioni caldi e dalle luci irregolari delle tv che infiammano le case. Mattoni azulejos ovunque. Libriamo soffici, ispirate dalla lingua più armoniosa del pianeta.
A Porto non avevo una macchina fotografica, così ho usato il mio vecchio telefono. Le immagini sono brutte, sporche, pixelate, come alle porte del 2010. Cos’è cambiato? Lo smartphone sconquassato esala gli ultimi bip. Ma che ci importa, almeno così spogliamo il passato dei contorni. Mai netto, libero di mischiarsi alle memorie, d’archivio e alcoliche. Sempre in divenire, tra pance di sardina, vociare di vecchie, schiamazzi d’hotel, brezza di fiume. Obrigada.
Carla Oppo nasce in Sardegna nel 1988, era sabato e soffiava il maestrale. A 19 anni attraversa il Mediterraneo alla volta di Roma. Da allora cavalca metro, bus, perde treni, frequenta l’università, diventa storica. Oggi si occupa di audiovisivo. Di giorno lavora per una tv, la notte si sbronza di cinema. Ha scritto e diretto “Fuori Programma”, un corto d’archivio. I suoi giorni da cosmonauta: sguardo nomade, carta, penna e guizzo funky. Quando scende la sera: vino, lampioni e flâneurismo.