Testo e Foto di Donatella Penati e Mario Negri
La questione e’ il nocciolo.
Lo è sempre stato da che ha storia l’uomo.
25 aprile 1986, in un luogo anonimo della Ucraina,veniva scoperto il nocciolo,che bruciando si portava via uomini e cose. Se al suo posto ci fosse stato un uovo,molti protagonisti,eroi involontari di questa tragedia sarebbero ancora qua. Ma a 30 anni dal disastro nucleare di Chernobyl, nella tenebrosa Polyssia,restano ancora il nocciolo maledetto che brucia come fiamma eterna ed un uovo, dono di uno scultore del nord, messo lì in mezzo alla rotatoria che porta alla zona interdetta, quella dell’esclusione. Ed impressiona di come la vita, l’uovo pieno di desideri di bimbi, incontri la strada della morte.
Il nocciolo e la sua eterna radiatia.
In 30 anni si è cercato di far dimenticare l’immenso disastro ambientale, che deve ancora fare i conti con gli effetti a lunga distanza che stanno pagando soprattutto gli abitanti di queste zone. Bonifiche, riduzione della zona interdetta, viaggi tipo Nuclearland, non bastano ad allontanare l’incantesimo perfido che avvolge questa foresta proibita. E rende strani, legati come ad un sortilegio, i cocciuti abitanti di queste zone. I chernobyliani. Un mondo a parte, pochi eletti od esclusi, orgogliosi di aver dato pelle e salute per i loro campi, per la loro casa. Marziani sulla terra. Anzi, quasi accudiscono la Radiatia, come una sorta di dea che li ha tenuti uniti, che ha evitato l’abbandono della terra. E che nonostante tutto da’ ancora lavoro e frutti: patate, cipolle e mele. Le bianche mele di Pryapat, che ci dice un esperto, crescono in aria, perciò sono buone. E cesio o no, non si butta niente.
Olga, insegnante figlia di insegnante, non lascerebbe mai la sua scuola a 100 metri dal perimetro ancora atomico. Tenta in tutti i modi di accudire il ricordo ,ma vuole parlare dei problemi di ora: la guerra, la disoccupazione. E di tutte le promesse fatte e non ancora mantenute.
Di quei giorni ricorda solo gli occhi tristi dei cavalli tristi condannati all’ultima corsa. Contaminazia, morte. Un velo di malinconia, da vera Chernobyliana e quel pizzicore in bocca. Crudele dio , l’atomo non ti abbandona mai.
Maria, bidella nella sua scuola, al tempo dell’atomo impazzito, tagliava,anzi vedeva cadere i capelli di chi era impegnato a spegnere incendi e seppellire materiale radioattivo. Mostra orgogliosa le medaglie, il tesserino e il rublo di Chernobyl, come fosse uno stato indipendente.Ma mostra rabbia verso chi li governa ora, procurando
speculazione e povertà. Alto è lo spirito ucraino che ha sempre mal sopportato il sopruso russo.
E Vladimir, potente ed indifeso, con la radiatia nelle ossa e nel cuore,non riesce a dimenticare il lavoro di liquidatore. Sparare ai cani indifesi che ti venivano incontro facendoti festa,scovare i vecchi che non volevano lasciare case ed orti. Seguire l’andarsene per sempre di amici e vicini. Piange come un bambino, gli occhi rossi , a due passi dalla radiatia che non teme più. E il vecchio contadino, nonno di Olga,che non ha lasciato la sua dacia nascosta nella magica foresta, ricordo ancora tra le sue patate novelle il grande incendio della notte di aprile e quel sapore strano metallico in bocca. Che si sente ancora dice. Sparso tra campi immensi di girasoli,more giganti e mele volanti.
Paradossalmente quel che resta dell’atomo e che resterà ,nessuno sa fino a quando,ha preservato costumi e gente di questi luoghi.Come in un mondo a parte,fatato,che un sortilegio senza fine sembra lasciar vivere per sempre.Ogni tanto qualcuno cerca di rompere l’incantesimo,portando via beni e merci,speculando sul disastro.Ma la maledizione atomica lo segue. Chissà per quanto.
Forse l’antidoto c’e’ per sconfiggere il nocciolo.E sarebbe l’uovo. Proprio quello che,semplice,e’ li’ dimenticato in mezzo all’incrocio. Fra 200 anni verrà aperto ed i sogni e le speranze di tanti bambini verranno svelate.
Chissà se ci sara’ ancora qualcuno di loro a dire,come per il reattore,e’ saltato l’uovo?
Testo e Foto di Donatella Penati
Post-Produzione fotogradica di Mario Negri
CARBAMITU’
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