Emanuele Giordana, giornalista, presidente onorario e fondatore di Lettera 22 (Associazione indipendente di giornalisti), ha scritto sul numero 6 di Erodoto108 “Ultimo valzer a Kabul“, un reportage sulla situazione economica dell’Afghanistan. Mentre il numero 6 usciva Giordana è tornato a Kabul e la situazione, a meno di un mese dalle elezioni, era completamente cambiata. Ecco cosa è mutato in soli sei mesi nell’incertezza del voto del 5 aprile e della resa dei conti a fine d’anno con Stati Uniti e Nato.
(Di ritorno dall’Afghanistan)* – Il cambiavalute dell’aeroporto di Herat si sbaglia? Dopo aver telefonato alla banca, ha contato 78 afghani per euro, una cifra mai vista. A Kabul diamo un’occhiata ai bollettini: l’euro vale al cambio ufficiale 79,40 e il dollaro 57,30. Il biglietto verde, moneta di riferimento, è stato per anni stabile a circa 55 afghani per dollaro. Poi, un paio di anni fa, Karzai ha fatto lievitare per decreto il suo valore facendo scendere la quotazione a 50. Nei tredici anni di occupazione, la divisa afgana si è mediamente apprezzata su dollaro ed euro di un buon 5% ma adesso il bel tempo è diventato variabile. Con tendenza al brutto.
Arrivati nella capitale, in effetti, ad essere freddo non è solo il tempo atmosferico. La primavera quest’anno si fa aspettare e marzo ha riservato ancora qualche nevicata con fangosi pantani ai margini di strade sommariamente asfaltate e incorniciate da canaletti di scolo appena rifatti ma già ingolfati di plastica, stracci e lerciume. Segno di quanto poco l’ambiente sia nelle preoccupazioni degli esportatori di democrazia. Anche all’economia non è stato dedicato molto pensiero dai Soloni di Washington o di Bruxelles. Ed ecco la sconfitta di un liberismo sfrenato e autoregolatore, capace solo in teoria di far saltare a un’economia semifeudale tutte le tappe delle rivoluzioni economiche del Vecchio e del Nuovo mondo. La speculazione, attratta da affari facili e scarsa capacità di controllo sulla proprietà, ha fatto il resto, accaparrandosi terreni, miniere e naturalmente succulenti appalti dalla Nato. Ma pochi si son preoccupati di tutelare il lavoro, per lo più informale, che agita le preoccupazioni del futuro. I sindacati, che pure esistono, non sono mai invitati alle kermesse blindate di generali e diplomatici – l’élite che si divide con l’esecutivo la governance del Paese – e pochi han dato retta alle proiezioni dell’Ilo, l’Ufficio Onu del lavoro, che ricorda come ogni anno 400mila nuovi afgani si affaccino sul mercato in cerca di occupazione. Molta della quale adesso, con la fine – più che della guerra – della presenza occidentale, sta per svanire come l’ultima neve al sole primaverile.
L’attivismo della capitale, che fino a sei mesi fa, ballava ubriaca il suo ultimo valzer di splendore sulle macerie di una guerra trentennale, adesso fa da tappezzeria, aspettando di capire chi sarà il principe azzurro che urne e giochi di potere riservano dopo il 5 aprile, giorno delle presidenziali. Cantieri fermi, ponteggi vuoti, camion in rimessa. Sei mesi fa Kabul sembrava un nuova Dubai un po’ stracciona in costruzione. Adesso, anche gli sceriffi del Golfo devono aver chiuso la cassa aspettando di capire. Il prezzo dei terreni è calato del 50%. Gli affitti sono crollati. All’incertezza sul futuro politico si somma quella sugli accordi di partenariato tra Washington, Bruxelles e Kabul: non accordi commerciali o culturali ma militari, che devono disegnare il futuro della presenza americana ed europea e la consistenza di una legione in divisa che era arrivata a contare 130mila uomini e almeno 200mila contractor. Non sapere quanti soldati rimarranno, in quante basi, per quanto tempo, significa anche non sapere quanto ancora durerà la manna legata alla guerra, tragedia nefasta che a pochi garantisce lauti profitti
Anche la moneta ne risente e mentre l’afghani saliva del 5%, i suoi concorrenti valutari, in Iran, Pakistan, Tajikistan, perdevano quasi il 50% del loro valore. A Karzai e alleati importava poco la concorrenza commerciale dei vicini, ma adesso non ci si può più permettere che sia più conveniente comprare i cavolfiori a Peshawar , oltre confine, anziché dagli orti attorno alla capitale. L’attesa per le elezioni assottiglia la distanze tra le monete ma il senso di un’incognita con poche risposte si fa pressante. Se è vero che il 90% dei quasi 20 miliardi di dollari di Pil afgano si devono al portafoglio internazionale (e gran parte del sommerso a traffici illeciti) l’apprensione è comprensibile. A maggior ragione ora che il flusso di capitali esteri ha smesso di correre verso investimenti facili e che l’enorme massa di valuta pregiata circolata in Afghanistan per dieci anni si ridurrà drasticamente.
*Questo reportage è stato pubblicato il 5 aprile anche su Ilmanifesto e su Grat Game, il blog di Emanuele http://emgiordana.blogspot.it/