Apro gli occhi: Il cellulare segna le 5.30, ora locale. Dopo essere arrivata all’aeroporto, ieri sera ero riuscita ad arrivare ad Antigua in taxi, condiviso con una ragazza svizzera che, come me, viaggiava sola. Dopo un black out di quasi 15 ore avevo mandato un paio di messaggi per rassicurare a casa. Mi ero coricata presto, rassegnata dal fatto che il jet-lag mi avrebbe sicuramente svegliata dopo poche ore.
La meteo mi informa che fuori ci sono solo 9 gradi. Le previsioni per oggi ne davano massimo 22 . Ieri sera mi ero compiaciuta per la scelta dell’outfit indossato: ci troviamo a più di 1500 metri di altitudine e l’escursione termica è notevole.
Dopo qualche minuto abbandono ogni speranza di riaddormentarmi e decido di vestirmi per uscire. Mi piacciono le città che si svegliano lentamente con le prime luci dell’alba, stiracchiandosi come un gatto annoiato.
Scendo le scale dell’hotel e giro a sinistra. Incrocio un vecchietto a suo modo elegante: giacca ampia marrone, camicia rosa maialino, immancabile cappello da cow-boy, stivali tirati a lucido. Sul viso abbronzato dai tratti maya, i segni di chi ha dovuto fare a pugni con la vita. Che lavoro farà?
Una coppia è seduta sotto il portico del Parque central. Vendono giornali. Lei ha una manta, uno scialle a righe bianche e azzurre che ben si mimetizza sullo sfondo della parete. Chiedo se in questo portico vendano ancora l’elote. Il suo viso s’illumina. Sa di cosa parlo: atol de elote, Mi corregge. Una delle bevande calde più buone che ricordi. Ricavato schiacciando i grani ancora freschi del mais, viene servito caldo per combattere il freddo del mattino o del pomeriggio inoltrato. “Forse lo trovi più tardi alla Merced”. Mi dice poco convinta.
Un picabasura, uno spazzino, sta completando il suo lavoro per strada. Il giorno dopo la movida, a terra rimane di tutto. Una squadra è seduta in riga su un muretto con caffè e pan dulce in mano. Saluto quello che sembra il capo. “Fate un lavoro grandioso per la città”, dico in spagnolo “Grazie di 💙”. Rimangono muti per un istante mentre proseguo il mio cammino. Dopodiché piovono gracias e sorrisi gratificati per il proprio lavoro riconosciuto.
Cammino sotto i portici della piazza principale. L’abitudine di lavare il proprio pezzo di pavimento ogni mattina a secchiate d’acqua e candeggina mi ricorda lo stesso rito che si compie a Bari Vecchia, quando camminando per quelle calli ti arriva al naso il profumo di fiori del detersivo usato.
Mi è venuta fame: trovo il posto che stavo cercando. So che il caffè di Doña Luisa ha il potere di scaldare fino in fondo all’anima. Il suo pan de banano è un’istituzione di Antigua. Anni fa la gente faceva la fila fuori verso le 4 del pomeriggio, aspettando che lo sfornassero.
Hanno appena aperto ma il personale è già in fermento. Sono le 7 e fa ancora freddino. Sono seduta su un tavolo della veranda al primo piano che dà sul patio interno. Gli avventori sono ancora pochi ma il posto si sta animando. Abbasso gli occhi e guardo il giardino, è arricchito di piante rigogliose. Alcune si arrampicano sulla parete formando un muro verde: rifugio perfetto per i passeri che giocano a nascondino. Aspettano una minima distrazione dei clienti per zompare sul tavolo e rubare le briciole rimaste. Ti guardano piegando la testa. Sembra che parlino. “Posso?” Ancora no, li scaccio lievemente con la mano.
La cameriera arriva per la comanda: come sono los huevos revueltos? A gennaio c’è l’offerta per quelli divorciados. Mi viene in mente un gioco di parole di qui. Alla domanda estan juntos?, state insieme? per scherzare, spesso la risposta era juntos… pero no revueltos – strapazzati – seguito da una chiassosa risata. Non ho mai capito esattamente cosa intendessero…
La voce della cameriera arriva come musica alle mie orecchie. I modi della gente di qui sono sempre gentili. Questa cosa mi emoziona, perché da noi ormai la gente è spesso scontrosa. La frenesia, la mancanza di tempo ci ha reso perennemente incazzosi. Qui le persone sembrano non conoscere la cattiveria. Non vogliono farti stare male per cui spesso non sanno dire “no”. Se ne escono con quel Fijate que, pensa un po’, che all’inizio mi lasciava confusa. Abituata alla schiettezza del nord-est italiano, mi ci è voluto un po’ per comprenderlo.
Ordino le uova all’occhio di bue, estrellados, dicono qui, indicando il fatto che quando cadono in padella l’impatto dell’albume con la superficie dura forma quasi una stella. Pura poesia anche nelle cose semplici.
Al tavolino al mio fianco un signore sta terminando la sua colazione. Alto e robusto, ha i tratti europei; i capelli grigi sono lunghi ma curati. Si comprende subito che appartiene al ceto sociale più alto. Al suo arrivo qualcuno l’aveva accolto con reverenza; pareva un po’ imbarazzato d’essere stato riconosciuto. Ossequiato con un señor arquitecto, ha risposto con discrezione al saluto dando successivamente le spalle al suo interlocutore. Era chiaro che cercava un po’ di privacy. Mi ero seduta allo stesso modo: anch’io avevo lo sguardo rivolto alla cameriera, mentre ne aspettavo l’arrivo. Tre tavolini disposti in riga con una persona ciascuno, come scomparti di una stessa carrozza.
Poi, mentre attendevo il mio desayuno, la colazione,mi era venuta in mente una domanda e ho pensato fosse proprio la persona giusta a cui porla. Il mio cellulare è quasi scarico e ancora non so niente del voltaggio elettrico locale. Ho portato una spina-convertitore vecchio di 25 anni. Chissà se funziona ancora. “Qui il voltaggio è a 120 volt” mi conferma lui. Sorrido pensando che ci sono cose che rimangono uguali. “Lei di dov’è?” mi chiede incuriosito forse dal mio accento strano. “Italia” rispondo. “Conosce?” “Sì, conosco” mi risponde discreto e misterioso. “Dov’è stato?” Insisto io pensando che la maggior parte dei ricchi in America Latina appena possono si fanno le vacanze in Europa. “Ho studiato a Firenze e a Roma” mi dice lui. “Mi sono specializzato lì. Sei mesi in una città e sei mesi nell’altra. Poi, altri quattro mesi a girare, a conocer”. Eravamo già entrati in confidenza. Penso che da giovane dev’essere stato un bel tipo: avrà lasciato più di qualche cuore infranto, dall’altra parte del charco, della pozzanghera, come chiamano qui l’Oceano Atlantico. Gli chiedo se si ricorda che la moglie di Manuel Colom Argueta, sindaco del Guatemala assassinato nel 1979, era fiorentina. Il suo viso si oscura un po’. “Un grand’uomo” mi dice poi serio. Parliamo un po’ del nipote che dal 2008 al 2012 è stato Presidente, ma non aveva certo lo stesso carisma. Non gli dico che quest’ultimo l’avevo conosciuto anni fa a Cuba, durante un evento ufficiale all’Avana quando era esponente dell’URNG, l’Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca – uno dei quattro gruppi che formavano la guerriglia guatemalteca. Si era candidato all’interno della coalizione Alianza Nueva Nacion per le elezioni del 1999, dopo la “legalizzazione” di quel gruppo armato, in seguito agli accordi di Pace del Guatemala. La stessa sera avevo stretto la mano anche a Daniel Ortega, ma di quest’ultima conoscenza, non andavo molto fiera.
“Disfrute de mi ciudad”, goditi la mia città, mi dice quando me ne sto andando.
Riprendo il cammino verso il Parque del Tanque de la Union, dove si trova il lavatoio pubblico. Cammino sul lato sinistro della piazza fino ad arrivare sulla zona delle vasche allineate. Sono le 8 ma qualche ragazza sta già lavando i panni della sua padrona. Una in particolare attrae la mia attenzione. Le piace il fucsia. Rubo una foto.
Questa piazza è tranquilla. I turisti qui sono pochi. Ci sono dei piccoli capannelli di persone intorno a delle venditrici ambulanti. Ci provo:” Tienes atol de elote?” La ragazza mi guarda sorpresa. Senza rispondermi parla con la donna a fianco: Doña Martina?” Chiede la ragazza “Tienes atol?” La donna vestita con il traje tipico si volta e annuisce. Mi avvicino speranzosa mentre prende un bicchiere e comincia a riempirlo. Per me: nettare degli dei. “Non sa quanti anni me lo sono sognato, le dico in spagnolo mentre finisce di versarlo e me lo porge”. La guardo mentre cerca il resto nelle tasche del suo grembiule; le mie parole la sorprendono. Oscilla la testa sorridendo. Penserà che sono un’altra di questi gringos strani. “Non ho il resto”, mi dice poi preoccupata. “Non importa”, le dico io. “Lo tenga pure, magari per chi non può pagare”. Atol de elote come un caffè sospeso. Sono sazia ma non resisto. Chiudo gli occhi e annuso il suo profumo: proprio come lo ricordavo. Infine assaggio quel liquido denso e dolce che, come allora, riesce ancora a scaldarmi il cuore.
Saluto e m’incammino sul marciapiede che riporta all’albergo. Ora il sole comincia a farsi sentire. Mi tolgo il piumino. Sul muretto alla mia destra vedo una giacca marrone. Il cow-boy maya è a pochi metri da me. Sta aiutando un pick-up a entrare nel parcheggio. Il turno del mattino è già iniziato.