Testo di Sandro Abruzzese
Chadži-Murat in fuga, sulle montagne del Caucaso, viene reciso come un cardo, vilipesa, tranciata e mostrata la sua testa tra gli abitanti dei villaggi caucasici che ne conoscevano il valore e la fierezza. E’ un’immagine che porta alla mente il corpo senza vita del Che, così simile al Cristo morto del Mantegna, mostrato inutilmente dall’esercito boliviano in quell’ottobre del ’67 per non alimentare leggende sul rivoluzionario argentino. Straziato nel corpo, Chadži, ucciso da un rastrellamento congiunto di russi e di ceceni come lui. La metafora del cardo, l’incipit con cui il narratore racconta la fatica di divellere il gambo che si sfibra, si sfilaccia, ma lotta tenacemente perché così è nella sua natura, riporta chiaramente all’intera esistenza di Chadži-Murat. Tolstoj scrive questo romanzo breve in età avanzata, vedrà la luce postumo, nel 1912. A un certo punto, ricercato dall’abietto Samil, imam e spietato capo combattente dei ribelli ceceni, il quale teme la rivalità onesta di Chadži e ne tiene in ostaggio l’intera famiglia, il protagonista viene accolto in un villaggio secondo le sacre leggi di ospitalità vigenti tra i mussulmani ceceni. Tolstoj descrive con cura la grazia dei rituali di ospitalità, tratteggiando i lineamenti di una civiltà temeraria e intransigente, violenta e nobile allo stesso tempo. Ancora una volta, dopo la sterminata epica di Guerra e pace, attraverso la cieca, gratuita e sciatta spedizione russa che distruggerà proprio il villaggio e la famiglia che aveva ospitato il nostro protagonista Chadži, Tolstoj tratteggia i lineamenti tetri e il volto livido della guerra. Non solo. Lo scrittore russo, proprio come aveva fatto in Guerra e pace, narra i meccanismi ottusi del potere, la decisione improvvisa, impulsiva e vezzosa dello zar Nicola, quando nel gennaio 1852 ordina e dispone l’attacco alla Cecenia. Il resto, dopo che i russi ebbero ucciso “quel bel ragazzo dagli occhi scintillanti che guardavano incantati Chadži-Murat (…)”, dopo che “Le grida delle donne si levarono da tutte le case e nelle piazze dove erano stati portati altri due morti”, dopo che “i bambini urlavano insieme alle madri, urlava il bestiame affamato al quale non c’era niente da dare. I ragazzi più grandi (…) guardavano gli adulti con occhi impietriti”; il resto – dicevo – era “il sentimento (…) più forte dell’odio. Era la sensazione che quei cani di russi non fossero uomini, e il disgusto, lo schifo, lo sbalordimento di fronte a quella assurda crudeltà sfociavano in un desiderio di distruggerli, come si faceva coi topi, i ragni velenosi e i lupi, un desiderio ormai istintivo come lo spirito di conservazione”.
Tolstoj oppone i valori autentici e istintivi dei montanari ceceni, – più vicini alla natura e per questo innocenti, – alla dissolutezza decadente, dissacrante e lasciva dei russi occidentali. In Chadži-Murat ritroviamo pagine che riescono a legare Leopardi e Adorno. Troviamo l’amore per la verità, per quanto di sacro può avvenire tra esseri viventi e mondo, e troviamo il disprezzo della civiltà priva di incanto, snaturata e quindi abietta. Nondimeno, nel leggere una vicenda del genere, la memoria va a un’altra scrittrice, a quella Anna Politkovskaja assassinata nell’ottobre del 2006 a Mosca, rea di aver raccontato sulla Novaja Gazeta i crimini dei nuovi russi nel Caucaso, la violazione dei diritti umani e civili ai danni della popolazione cecena, stavolta avvenuta centocinquanta anni dopo lo zar Nicola, perpetrata dalla democratica e moderna Russia di Putin.
*Brani citati tratti da Chadži-Murat di Lev N. Tolstoj, traduzione di Milli Martinelli, Classici moderni, Bur edizioni 2006.