Testo di Dario Landi | Fotografie di Giancarlo Barzagli
Non so quanti di voi abbiano visto uccidere un animale.
A me, pur vivendo in campagna, non era mai successo.
Poi sono arrivato a Chargo Redondo.
Chargo Redondo è un villaggio disseminato sulle pendici della Sierra Maestra, nella provincia di Bayamo, sud-est di Cuba.
La strada centrale è l’unica asfaltata. Le altre, in terra battuta, si diramano da essa fra case basse, spesso, e forse per sempre, ancora in costruzione, circondate da giardini delimitati da siepi di cactus.
La natura attorno è esuberante. Poco sotto il paese scorre un fiume smeraldino con pozze stupende dove tuffarsi. A guardia del corso d’acqua sta un albero di banyano che gli abitanti dicono vecchio di 800 anni. Non so se sia una leggenda, ma nel caso era già qui da 300 anni quando Colombo incappò in Cuba.
Noi, invece, siamo incappati qui perché uno dei ragazzi in viaggio con me ha parenti in paese.
Capita a molti italiani di visitare l’isola e tornarsene con una moglie, ed è successo anche a suo cugino.
Ci accolgono con grandi feste, e quell’accoglienza un po’ oppressiva delle famiglie numerose.
Liliana e Kiki sono i proprietari della casa e capi famiglia. Attorno a loro si muove una torma di bambini, zii, nonni e altre parentele non meglio identificate.
Ci concedono la loro casa, cucinano per noi, ci guidano in lunghe escursioni nella sierra.
Per questo, il terzo giorno è previsto che ci sdebiteremo. Sdebitarsi però comprende un sacrificio. E siccome non possiamo sacrificarci direttamente noi, serve un capro espiatorio.
E qui entra in scena Lei.
Lei è una scrofa di 120 kg.
Abbiamo raccolto i soldi fra noi, circa 2’000 CUC, cioè la moneta dei turisti nel folle sistema di doppia valuta cubano, e li abbiamo consegnati alla famiglia. Sono circa 200 euro e sono serviti ad acquistare l’animale.
Lei è anche la nostra sveglia. Viene scaricata sull’impiantito di cemento dietro la nostra finestra alle 8 del mattino e inizia a grufolare brutalmente. Ci svegliamo di soprassalto.
Tre uomini l’hanno condotta fin qui su una carriola: Kiki, Honel e Alexi.
Alexi è il capo di tutta quest’operazione. E’ un uomo alto, calvo, con un perenne sorriso mansueto.
Abile, ci è parso in questi giorni, in qualunque attività umana, sembra padroneggiare, nel tuffarsi da una roccia nel fiume, o nell’abbattere un albero a colpi d’ascia, una strana forma di scienza ancestrale.
Noi siamo agitati. Scattiamo foto, ci muoviamo senza costrutto, parlottiamo frenetici osservando l’animale agitarsi.
La famiglia invece è rilassata. Liliana cucina la colazione, Kiki accende un fuoco sotto una grande marmitta colma d’acqua. Servirà per tosare il maiale. Giovanni, loro figlio, gioca col grande spiedo appena portato da Wilfredo, il nonno.
Sulla strada passano due uomini. Uno ha un gallo sottobraccio. E’ piccolo, dai colori sgargianti. E’ da combattimento. L’uomo lo solleva, ce lo mostra fiero, esclamando qualcosa ad alta voce in spagnolo.
La loro tranquillità cozza con la paura della bestia. Se ne sta distesa dietro un angolo della casa, il naso che con respiri brevi e sincopati spazza la polvere davanti a sé.
L’attesa si protrae. Alexi aggiunge un’altra abilità alle sterminate che già ha mostrato e ci intrattiene con giochi di prestidigitazione con le carte.
I primi due, a dire il vero, li sbaglia. Per il terzo mi sceglie come cavia. E riesce. La mia carta era un quattro di cuori. Quando Alexi se la toglie di tasca tutti ridiamo, gli stringo la mano.
Poi si blocca un attimo, in silenzio. Tutti si alzano. E’ il momento.
Vamos a matarla, dice.
Kiki e Honel stanno già bloccando l’animale schiena a terra, tenendolo uno per le gambe anteriori, l’altro per le posteriori.
La scrofa urla con un suono di lamiere che si contorcono, gli occhi fuori dalle orbite.
Alexi si china su di lei con calma olimpica e le poggia la mano destra sul petto. Fa scorrere l’indice e il medio sullo sterno, cercando alla bestia il cuore furioso.
Repente estrae dalla tasca un coltello sottile, lo stringe nel pugno, poggia la lama nel punto dove ha fermato le dita, fra l’una e l’altra.
L’altra mano sale in aria, poi ricade violenta sul fondo del coltello. Due, tre, quattro volte. L’animale vorrebbe avere un ultimo sussulto ma non ci riesce.
La lama è arrivata al cuore. Alexi ve la tiene alcuni secondi, poi la estrae, subito rimpiazzandola con un dito per non far defluire il sangue
La testa della bestia reclina, facendo roteare gli occhi in uno sguardo che sarebbe sciocco caricare di intenti accusatori.
Il capro espiatorio ha compiuto il suo dovere, il nostro debito con la famiglia è assolto, ma la morte è solo una questione fisica, idraulica.
La scrofa viene gettata sul tavolo. Dentro la casa le donne, Liliana in testa, si preparano a scendere a Bayamo, una brutta città, per acquistare le cose mancanti per la cena. Separate, da una cortina invisibile, dal mondo degli uomini, ridacchiando civettuole si truccano, profumano, ingioiellano.
Con ironica similitudine, in cortile, la scrofa subisce uno spiccio trattamento estetico.
Viene tosata con acqua bollente, pietre calde del fuoco e coltelli, e poi, attraverso i sapienti gesti e parole di Alexi, che quasi improvvisa una parodia della Lezione d’Anatomia del Dottor Tulp di Rembrandt, eviscerata.
Infine viene appesa al tetto della casa per dissanguarsi.
Scende la sera. Il maiale, durante la giornata ha perduto passo passo i suoi attributi mortali e s’è trasformato in oggetto brunito che ora rotea sullo spiedo, che ci alterniamo a far girare spingendo una manovella arrugginita.
Prima di medianoche non sarà cotto, e intorno a lui ora s’anima una festa. Canti, balli, rum.
Alexi, lontano da tutto e da tutti, controlla il fuoco.
Dario Landi nasce nel 1981 a Borgo San Lorenzo, Firenze, dove risiede tutt’ora. Fa un lavoro troppo brutto per essere dichiarato, ma per fortuna si dedica alla scrittura e grazie a quella ogni tanto riesce a scappare. Aveva paura di viaggiare ma se l’è fatta passare, e negli ultimi tre anni ha visitato India, Cuba e Marocco.
Ora sta pensando a dove andare la prossima volta.