Il tema di questa undicesima biennale d’arte della Corea, a Gwanju, era ecologico, The Eight Climate (What Does Art Do?) e l’invito agli artisti era chiaro: prendere coscienza e a far sentire la propria voce. E’ quello che ha fatto Agneska Polska con la sua immensa stampa digitale, The glass of petrol, che ritrae i riflessi policromi della benzina, raccolti in un calice, i cui colori ricordano quelli della Terra vista dallo spazio. La sua opera accoglie i visitatori all’ingresso principale. Al centro della stessa galleria la ricostruzione di Dora Garcia di una libreria storica di Gwangju, Nokdu: è la ricostruzione di uno spazio che è stato simbolico per aver accolto gli attivisti coreani durante le rivolte del 1980. In questo spazio arte e reale si fondono letteralmente: qui si organizzano incontri e presentazioni di libri, che si possono acquistare, di tipo filosofico o politico. Il titolo di questa biennale richiama il concetto della filosofia persiana del dodicesimo secolo: una zona tra materiale e immateriale, dove reale e immaginario convivono e riassemblano il reale in arte contemporanea. E’ sotto questo cappello che in Corea sono stati chiamati ben 101 artisti di cui 28 nuove commissioni. Ma sono i video i veri padroni di questa kermesse. Non solo perchè sono uno dei medium più usati dagli artisti ma anche perchè è uno degi mezzi più completi, capace di rendere opere artistiche che non sono più etichettabili o categorizzabili. Teeth, Gums, Machines, Future, Society (2016) di Lili Reynaud-Dewar è stato girato durante il suo viaggio a Memphis dove stava investigando sui concetti di razza, classe; Sleepers. A three-act play with six actors (2014) di Barbora Kleinhamplová e Tereza Stejskalová documenta una piece teatrale dove gli attori protestano contro la privazione di sonno come fenomeno sociale. La domanda che riecheggia forte, e lo farà fino al 6 novembre, è: cosa può fare l’arte?