testo e foto di Giovanni Mereghetti
Ti manca l’aria quando entri per la prima volta nel carcere di San Vittore.
Basta un passo, oltre la riga gialla che delimita la porta carraia, e si entra in contatto con una realtà sconosciuta, un mondo di cui si aveva solo sentito parlare.
I primi passi sono pesanti, ci si muove come in altitudine, in una sorta di galleggiamento mentale che porta a sforzi interiori intensi. Si cercano di capire quelle facce “sporche” che incrociano i nostri sguardi curiosi e intimiditi. Volti estraniati e persi nel vuoto. Teste abbassate, mutismi forzati e figure umane che vagano in spazi limitati da confini artificiali. Non è facile guardare i loro musi, ci si sente invadenti, irrispettosi. O forse, lavandosi la mente dai pregiudizi, solo e semplicemente curiosi.
Il carcere lo puoi frequentare per tanto tempo e a un certo punto pensare persino di conoscerlo. Non è così, quel mondo non lo capirai mai. Se non ci sei dentro.
Di giorno, i riflettori puntati direttamente verso una vita di condivisione, portano a immaginazioni assolute e lontane dalle logiche interiori dell’individuo. Tutto assume un valore normale. O quasi. Quando si spengono le luci, invece, ecco che come per metamorfosi, qualcosa cambia. Cambiano i bisogni, le necessità. I pensieri volano oltre il muro, gli stati d’animo si confrontano e non trovano pace. Una sorta di cruenta battaglia tra la realtà e i sogni negati.
L’immaginazione oltrepassa le inferriate della cella e si inizia a riflettere e a pensare, a quando un giorno, dopo aver pagato il proprio debito con la giustizia, si potrà riassaporare un’aria priva di involucro forzato. E si guarda il cielo, che a volte regala lo spettacolo delle stelle. Sempre troppo lontane per sentirsi liberi.
Anime prigioniere in un mondo di balordi e malandrini. Frammenti di società generata a scacchiera e priva di un ordine logico. Occhi sbarrati che fissano il niente. Pupille rassegnate ingrassate da umide lacrime. E’ facile sbagliare, difficile è poi pagare il conto che l’oste ci presenta.
E poi capita di vederli fuori, i ragazzi. Bastano pochi passi oltre la linea di confine e i filtri preimpostati perdono le loro funzioni originarie. Tutto assume un regime di spontaneità naturale. Le facce, gli sguardi, i musi duri, non sono più gli stessi.
Torni a vivere dopo i conti salati che hai pagato. Il sorriso trattenuto esplode e ritrovi il coraggio mancato che ti ha fatto abbassare lo sguardo per tanto tempo. Senti di essere vicino a te stesso e provi a ricominciare. Non ti senti più il peggiore della classe e torni nella consapevolezza di quello che veramente sei.
Troppi silenzi, persone distratte e troppo assenti invadono la tua mente. Ci provi ogni mattina a risalire dentro, ma non basta. Troppe porte chiuse dietro agli occhi trasparenti che non sanno più vedere. La strada è in salita, sfidi la vergogna e cerchi di non commettere altri errori. Ma vuoi vivere.
Provi a correre via. Ma il fiato è in debito di forze. Inciampi, scivoli ancora.
E poi parliamo di libertà. Di dignità, e di altro ancora.
Ci vuole una certa profondità d’immaginazione per capire e definire il confine tra la perdita della libertà e la privazione della dignità. Ogni essere umano è fine a se stesso, la dignità è un sentimento importante che considera il proprio valore morale. E’ considerazione di se stessi, delle proprie capacità e della propria identità personale.
Uomini in divisa blu da una parte. Parenti in fila dall’altra. Razza umana in attesa della burocrazia e dei controlli di sicurezza per un permesso di visita ai propri cari. Malandrini, ma pur sempre cari.
E si cerca ancora di capire, tra una barriera e l’altra. Capire quel mondo che sta scomparendo alle spalle. Si cammina e si cerca di mettere ferocemente assieme i tasselli raccolti oltre il muro. Idee confuse per un castello di sabbia incantato. E solo mentale.
Manca solo il suono di un bip, e la luce rossa di uno scanner che leggerà un codice a barre protetto da una custodia in acetato. Siamo di nuovo nella società. E ci sentiamo soffocare.
La mostra “SAN VITTORE, A MURO DURO”, a cura di Giovanni Mereghetti, sarà al Castello di Masnago, via Cola di Rienzo 42, Varese, dal 25 marzo 2018 al 19 maggio 2018.
Giovanni Mereghetti, fotogiornalista e docente. Collabora con le più importanti agenzie italiane ed estere specializzandosi in reportage geografico e fotografia sociale. Nel corso della sua carriera ha documentato l’immigrazione degli anni ’80 a Milano, il ritiro delle truppe vietnamite dalla Cambogia, la via della seta da Pechino a Karachi, l’embargo iracheno, gli aborigeni nell’anno del bicentenario australiano nonché le popolazioni Nuba del Sudan. Negli ultimi anni si è dedicato a ricerche fotografiche di carattere sociale nelle carceri italiane e allo studio dei flussi migratori provenienti dall’Africa Occidentale.
E’ autore dei libri “Bambini e bambini” (Mesero), “Piccoli Campioni” (Pubblinova), “Ciao Handicap!” (Click), “Omo River e dintorni” (Periplo Edizioni), “Bambini Neri” (Les Cultures – Sahara el Kebira), “Friendship Highway …verso il Tibet” (Bertelli Editori), “Destinazione Mortirolo” (Bertelli Editori), “Nuba” (Bertelli Editori), “Da Capo Nord a Tombouctou… passando per il mondo” (Immagimondo-Bertelli Editori), “Veli” (Les Cultures Edizioni) e “Hotel Bel Sit, storie di Migranti (Bertelli Editori).
Grazie all’esperienza maturata nel settore dello styling per conto di un’importante azienda italiana, nel 2010 fonda Spazio Foto Mereghetti, laboratorio di ricerca e comunicazione visiva, operante nel settore dell’immagine di design e nella creazione di concept aziendali.
I suoi lavori sono stati esposti in mostre personali e collettive presentate in Italia e all’estero.
Le sue opere fotografiche fanno parte della collezione dell’Archivio Fotografico Italiano.
Vive e lavora in provincia di Milano.