di Elena Dak.
Vi presentiamo due brevi racconti estratti dal libro Sana’a e la Notte di Elena Dacome in arte Elena Dak. Viaggiatrice di professione (lavora infatti per un grande tour operator, la Kel12), Elena è già al suo secondo esordio nella narrativa di viaggio. In un suo precedente viaggio Elena ha partecipato come unica e coraggiosa testimone “occidentale” ad una lunga carovana nel deserto del Ténéré assieme a circa quaranta Tuareg (La carovana del Sale).
Sana’a e la Notte (Alpine Studio) è un mosaico da comprendere attraverso tutti e cinque i sensi, diviso in piccoli capitoli autoconclusivi si racconta in un ordine non necessariamente lineare con tanti piccoli storie o come tante “finestre” da cui affacciarsi ed osservare la Sana’a dai mille volti e dalle tante anime*.
Ecco come la stessa l’autrice presenta il suo ultimo libro:
“Un saggio composto da brevi ritratti, mosso dall’intenzione di raccontare Sana’a, capitale dello Yemen, luogo di grande fascino, stritolato tra arretratezza e anelito verso la modernità. Un affresco che raccoglie le contraddizioni e la bellezza che ovunque regna sovrana. Dai tempi della regina di Saba le donne continuano ad essere protagoniste. Se non si può salvare Sana’a e le sue architetture, si tenta quanto meno di fissarne la forma in pagine che odorano di spezie”.
STANZA 402
Non riesco a dormire. Il canto del muezzin mi deve aver svegliato e da quel momento non ho fatto altro che rigirarmi tra le lenzuola. Colgo un leggero chiarore attraverso gli spicchi di vetro colorato. Scosto le tende: è l’alba. La luna deve essermi alle spalle: la prima luce del giorno si espande nel silenzio, di soppiatto. Il mattino è caldo e agitato. Nel pomeriggio sospendo per un po’ quella frenesia che mi vorrebbe in mille posti diversi nello stesso momento. Così mi stendo sul letto di questa mia stanza 402 e lascio che dalle finestre basse spalancate entri tutta Sana’a in pezzi. Entrano nella stanza finestre tonde, musharabia in legno, bordi decorati, gessi bianchi, mattoni sbiaditi dal sole, fili su cui svolazza la biancheria. Tutto entra nella mia stanza mentre riposo ad occhi socchiusi. Entrano le linee curve, i fregi, i vetri colorati, le macerie di qualche casa lasciata andare; entrano i fiori viola di jacaranda, un albero di eucalipto tutto intero e una cisterna per l’acqua di plastica blu. Entra il busto di un uomo vestito di bianco che si affaccia da un balcone e guarda di sotto. Entrano voci sparse di bambini e anche il rombo di un aereo che ha superato la barriera del suono. Entra la sagoma di Jebel Nuqum. La stanza è piena di Sana’a. Posso chiudere gli occhi e risposare per un po’.
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ALF LAILA WA LAILA
Sana’a, la città delle mille e una notte. La storia narra che Shahrazàd rischiava di essere condannata a morte dal re cattivo e così per mille e una notte lei incantò il re con i suoi fantastici racconti, ricchi di sorprese, finali inaspettati, trame sorprendenti e affascinanti. Giunse il tempo in cui Shahrazàd si stancò di raccontare ma a quel punto il re Shahriyàr ormai aveva completamente dimenticato l’odio che nutriva per le donne; erano state le storie fantastiche di lei a metterlo in pace col mondo e soprattutto con sé stesso. Shahrazàd ha salvato in questo modo la sua vita e quella di migliaia di fanciulle. Quando sono a Sana’a la città si racconta a me e io scrivo. Seduta sui muretti degli orti mi pare di poter ascoltare la sua voce, il brusio della storia, dei passi degli uomini e donne che l’hanno costruita, abitata, vissuta. Mi sembra di sentire il racconto sprigionarsi dal fruscio cartaceo delle palme, alberi femmina svettanti tra le zolle degli orti, dalle spine dei fichi d’india, dalle pietre dei minareti, dalle cupole degli hammam, dalle finestrelle traforate in legno e dalle poche antiche lastre di alabastro. Mi rifugio nei tuguri degli antiquari dove vecchi secchielli di legno parlano di quintali di spezie e farine, di mondi lontani e profumi soqotrini, dove le lanterne di pietra portano in sé la memoria di antiche fiammelle, dove candelabri e bracieri raccontano di fumi e profumi. Mi soffermo presso i gioiellieri dove pendono, contro muri o velluti consumati, vecchie collane di coralli grossi e tondi come amarene. Vorrei leggere le impronte delle dita di tutti gli uomini che hanno lasciato le loro tracce spalmando stucchi bianchi come neve sulle facciate delle case. Vorrei ascoltare e scrivere tutto il tempo e non smettere mai per salvare la città da sé stessa e dagli uomini, dal tempo e da chi è sordo ai suoi racconti.
Testo e foto di Elena Dacome | www.elenadak.it
*presentazione a cura di Marco Turini
Numero pagine: 120 | Casa editrice: Alpine Studio