Testo di Laura Lenci e Germana Urbani
Mappa del Delta disegnata da Germana Urbani, in Chi se non noi, Roma, Nottetempo, 2021
“La pianura è, tra i luoghi geografici, il paesaggio immobile che ammorba. La terra piatta racconta la monotonia del vivere quotidiano e lo sguardo che vi si posa si annoia facilmente”.
Così Germana Urbani, scrittrice, fotografa e insegnante, mi introduce alla sua esperienza della pianura e del Polesine ai qualei ha dedicato l’intero romanzo Chi se non noi.
“Non è facile amare la pianura, farne un luogo letterario. La letteratura di montagna, ad esempio, riscuote molta più fortuna in libreria. Me lo spiego pensando che un rilievo, fin dal suo primo apparire nel campo visivo, innesca una provocazione: l’uomo è subito chiamato a seguire il movimento di verticalità che si spinge verso il cielo e lo sfida a raggiungere sempre nuove altezze. Altrettanto il mare, profondo e oscuro è luogo seducente. L’acqua e il bagnasciuga, però, rimangono spesso dei parchi giochi più che luoghi geografici. Prova ne è il fatto che a settembre, rientrando a scuola, appendo la carta geografica accanto alla cattedra, bassa. Chiedo ai miei alunni e alle mie alunne di venire a mostrarci dove sono stati in vacanza. E accade, sempre più spesso, non sappiano collocare sulla carta la spiaggia in cui sono stati. Al contrario, a partire dall’esperienza vissuta che li ha coinvolti emotivamente moltissimo, nascono opportunità di percorsi geografici e narrativi che trasformano quell’esperienza in competenza. Indubbiamente, non c’è niente di più efficace di questo nella didattica”.
Ci troviamo quindi subito in sintonia, Germana ed io, ambasciatrici della geografia della meraviglia, cultrici della didattica dello sguardo, immerse nel paesaggio sia esso naturale, antropico o linguistico. Perché sì i nomi, a dirla con George Perec, “sono i primi a definire lo spazio, a trasformarlo in ambiente, generare un paesaggio, uno luogo cioè attraversabile da un corpo e «vivere, è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male”1.
“Non nutro alcun dubbio: la toponomastica è generativa. Io lo penso dal punto di vista letterario ma vale per molte altre discipline. Per quel che mi riguarda, il territorio del Delta polesano ha significato per me la confrontazione con un tavolato che appare fermo e rozzo, privo di seduzioni, vuoto. Perché questo pezzo di pianura si raccontasse a me, ho dovuto viverlo con il corpo in modo lento. Ecco che la toponomastica è suono, è storia, cultura, identità. Il nome di una località, di un paese, di un anfratto sono ciascuno un’apertura, un foro sulla mappa che conduce su percorsi inattesi”.
Ma le mappe non erano tramontate? La cartografia non ha più senso in un mondo che ha assunto una dimensione virtuale, ripete in varie circostanze da qualche anno Franco Farinelli2. Anche Andrea Zanzotto3 un paio di decenni fa decretava la morte della geografia. Con Germana Urbani invece torna ad imporsi la mappa. Una mappa circa.
“All’inizio del mio romanzo ho chiesto di inserire il disegno di quella che io definisco una mappa circa. Si tratta di una mappa approssimativa, uscita dalle mani di quel corpo che ha fatto esperienza del paesaggio visitandolo più volte nel corso delle stagioni e degli anni. Perciò questo disegno o quasi mappa è anche il racconto di un vissuto impreciso ed emotivo. Questa mappa circa vuol essere un modo per ritrovarsi e ritrovare, non un trovare col dito puntato al satellitare. L’ho voluta perché mi piaceva pensare che il lettore, dopo essere stato tra canali, golene e spiagge tra le pagine del mio libro, potesse recarsi fisicamente in quei luoghi. Non, però, seguendo le strade (che non ho segnato) ma orientandosi con il fiume e i toponimi. Un po’ speravo, anche, che potesse perdersi e praticare lo spaesamento, incontrando così, la poesia dell’infinito orizzonte”.
Così geografia della meraviglia si sposa con poesia della meraviglia e esperienza del paesaggio che non è mai uguale a se stesso ma che è sempre luogo di meravigliosi incontri anche quando essi avvengono sulla carta.
“Considero gli erbari e gli atlanti zoologici illustrati come veri e propri luoghi di meraviglia, capaci di coinvolgere profondamente la creatività di ognuno di noi. Seguendo l’etimologia dei nomi di una pianta, ad esempio, si incontrano sempre una storia, un luogo di provenienza, a volte un personaggio che l’ha trasportata da un paese all’altro o che l’ha classificata. Didatticamente parlando, visto che oggi la tecnologia ci permette di attingere a informazioni veloci ma spesso stereotipate e indifferenziate, potrebbe essere molto interessante lavorare utilizzando testi antichi o vecchie enciclopedie ricche di belle stampe e citazioni letterarie per indagare flora e fauna. Sulla mia scrivania, per esempio, tengo un grosso Devoto Oli e un antico dizionario dei sinonimi del Tommaseo che consulto frequentemente come vere e proprie fonti di ispirazione. Un vocabolo non conduce solamente ad un significato, ma definisce universi umani, vegetali, animali, geografici, storici che possono essere indagati all’infinito. Trovo tutto questo molto affascinante”.
Langue e parole, significante e significato: si danno come elementi imprescindibili del paesaggio portatore di vera e propria psicologia dei luoghi che introducono il «viandante nella mappa», lo rendono partecipe di un desiderio di immersione ed emersione attraverso la parola, la fotografia, il disegno, la riscoperta degli antichi reticolati romani o dei latifondi della Serenissima, la realizzazione di erbari e piccoli atlanti entomologici, lo sguardo fisso al cielo alla scoperta delle diverse specie di uccelli.
Se, come dice Belpoliti nel suo Pianura4 “esiste una psicologia legata al paesaggio, al luogo dove si è nati e vissuti che forma sensibilità e pensieri”, credo sia sempre più importante esplorare e vivere il territorio di pianura cercando di coglierne l’unicità che ancora vi sopravvive. Si tratta di una grande sfida perché l’urbanizzazione spinta, il consumo di suolo si stanno rivelando anche consumo di anima, di carattere. E non basterà qualche piantumazione lungo una nuova autostrada a compensare la perdita. È diventato urgente progettare microitinerari locali, di prossimità che siano immersivi, lenti, fotografici, sonori, affatto destinati al turismo di massa o di passaggio. Che trasformino il viandante in un cacciatore di senso capace di “invocare le cose perché vengano a noi con i loro racconti”, così scriveva Gianni Celati andando Verso la foce5, e – aggiungo io – che mi determina in modo assoluto”.
1 George Perec, Specie di spazi (tit. or. Espèces d’espaces, 1974), Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 12.
2 Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Torino, Einaudi, 2009.
3 Andrea Zanzotto e Marzio Breda, In questo progresso scorsoio, Milano, Garzanti, 2009.
4 Marco Belpoliti, Pianura, Torino, Einaudi, 2021.
5 Gianni Celati, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 1989.