Testo e fotografie di Carla Reschia
La salita allo Stromboli è un’impresa ingannevolmente semplice. E’ una gita da turisti, il motivo infine per cui si va fino lì, una montagna giocattolo alta poco più di 900 metri che nell’aria cristallina dell’alba a me, uscita dal sudore e dall’insonnia del traghetto Anni ’60 in partenza da Napoli – una cabina stretta, simile a una cuccetta ferroviaria, porte a vetri su un corridoio con luci al neon, bagni, e odori, degni di un vecchio treno regionale – appare come una visione rosa sospesa sull’acqua grigia, appena increspata di brevi onde.
Ogni isola è una magia e racchiude un mondo, lo so, ma questa è piccola come un presepe, è tutta lì, raccolta attorno al suo vulcano, un gregge sparso di casette bianche. Ti chiedi come fanno a viverci 365 giorni l’anno, come riescono a far passare l’inverno con le sue mareggiate e le sue tempeste, come riescono a ricordarsi che là, oltre l’orizzonte, c’è il mondo.
Stromboli “è” il vulcano. E’ un gesto ovvio salire a vedere da vicino il pennacchio di fumo che a ogni ora, di giorno e di notte, avvisa che la montagna “strombola” e non dorme mai. Come è ovvio seguirne e spiarne curiosi le mutevoli attività: è uno sbuffo gentile e bianco visto all’alba dal mare, è una nuvola un po’ più inquietante di cenere e lapilli la notte dal paese, è una fantasmagoria di fuoco dall’Osservatorio, un balcone naturale sotto le sue bocche dove, bevendo spritz o vino bianco dell’Etna in un ristorante piazzato stategicamente, si passa la sera a cercare, con obiettivi giganti, la foto a effetto degli sbuffi di lava incandescente che incendiano la notte.
Il giorno dopo, di nuovo, l’isola si presenta con il suo volto pacifico: un dedalo di stradine e sentieri profumati di ginestre, cisti, rosmarino, la distesa nera delle spiagge, l’atmosfera sospesa, i paesaggi che sembrano eludere il trascorrere del tempo. Anche la Sciara del fuoco, la strada percorsa dalla lava per arrivare fino al mare, è una larga e anonima cascata di pietre grigie e marroncine. Innocua, pensi che potresti persino provare a risalirla. Fino a quando non ti indicano i luoghi: lì c’era un campo, là, una spiaggia, e anche una casa: sparite, ingoiate da quel fiume silenzioso che a volte si accende e via via si mangia pezzettini di isola. E che ogni tanto cambia traiettoria, lasciando come una chiocciola una striscia di pietre fredde e cenere.
La lava non è abitudinaria, anche se ha tempi molto lunghi. Davanti al porto di Stromboli c’è uno scoglio alto, scosceso e acuminato come un castello di fate, Strombolicchio, il punto più settentrionale della Sicilia. Il vulcano, ti dicono i geologi originariamente, duecentomila anni fa, era lì, poi, centomila anni fa, la lava ha trovato altre strade, le ha abbandonate, e alla fine ha scelto i crateri attuali. In futuro forse cambierà ancora, chissà. Perché oltre i 926 metri della vetta, l’attività vulcanica arriva fino a 2400 metri sotto il livello del mare e lì ci sono stati solo i protagonisti di Viaggio al centro della Terra, di Jules Verne, che proprio alle pendici dello Stromboli, grazie a un’eruzione, riemergono alla luce dopo essere partiti dall’Islanda e aver attraversato le viscere del pianeta, incontrando dinosauri e funghi giganti.
L’isola di Stromboli è un set abitato dove la regola aurea dell’architetto Ludwig Mies van der Rohe, Less is more,trionfa senza sforzo. Di notte le luci si spengono, semplicemente. Nessuna illuminazione pubblica rischiara le vie strette percorse da pochi nottambuli dotati di pile. Le case sono semplici, quasi dimesse, così come lo sono i ristoranti e i negozi. Nessun lusso, nessuna ostentazione, solo il gusto pieno del cibo siciliano, dalle granite al pesce, e l’opulenza barocca dei giardini. Nessuna auto, anche se i micidiali e onnipresenti Apecar che sbucano dai vicoli più stretti di Stromboli sbrecciando i muri, a volte ne rappresentano un degnissimo sostituto. Chi ama dvvero la quiete, infatti, preferisce il borgo di Ginostra, dall’altra parte dell’isola, irraggiungibile per via di terra e che riserva le vie ai muli, come cent’anni fa.
Sottotraccia è anche il ricordo della coppia che ha fatto di quest’isola un’icona, Roberto Rossellini e Ingrid Bergmann. Compaiono in qualche bel ritratto in bianco e nero, talvolta, nei locali; c’è un bar Ingrid con una vista vertiginosa sul porto e dolci epici, c’è la casa color albicocca dove i due vissero durante le riprese del film, del tutto indistinguibile dalle altre. Nessuno parla di Nanni Moretti, che molto più di recente, negli Anni ’90, girò, qui alle Eolie, le scene più suggestive di Caro Diario.
Star minori, rispetto a Iddu: unico, autentico protagonista, fotografato, ritratto su ogni materiale, menzionato, blandito, temuto e tenuto costantemente sotto osservazione dagli uomini dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Che monitorano ogni giorno i suoi brontolii, le sue esplosioni simili a cannonate, le variazioni piccole e grandi che periodicamente danno vita a un’eruzione. Insignificante, talvolta, disastrosa, come quella del 1930, che provocò anche un piccolo tsunami, mediamente preoccupante e spettacolare, come quella del 2007.
Come sarà vivere sotto a un monte vivo, che sputa fuoco? Chiedersi ogni giorno se la “normalità” dell’attività vulcanica verrà rotta dall’eccezionalità di un’imprevedibile tragedia, abituarsi alle esplosioni, al fumo, alla lava che brilla nella notte? Dei quasi cinquemila abitanti del XIX secolo sull’isola ne sono rimasti 400, la maggior parte degli strombolani vive all’estero, in Australia, in America. Le eruzioni, i terremoti, la peronospora della vite che negli Anni ’30 del Novecento stroncò la coltivazione della malvasia, hanno allontanato chi voleva, forse, una vita più normale.
Chi resta vive dignitosamente, senza smancerie, di turismo. Vende l’atmosfera unica dell’isola e le sue semplici attrazioni, la passeggiata, il giro in barca, la pesca e quella per cui tutti, e anch’io, arrivano qui: la salita al cratere.
Che è, nel suo genere, una piccola impresa. I primi cinquecento metri, quelli che si possono affrontare anche da soli, sono una passeggiata appena scoscesa e offrono i migliori scorci dell’isola in mezzo a una vegetazione mediterranea che solo il pieno dell’estate riesce a mortificare. Poi, a quota 500, dove iniziano i pendii di sabbia e ghiaia, cambia tutto. Il paesaggio diventa lunare e minerale, sospeso sul mare che adesso sembra già troppo lontano. Qui avere una guida diventa obbligo perché il sentiero si perde su una pendenza da capre, una pendenza che in ogni momento potrebbe essere bersagliata da lapilli e pietre. Nell’aria limpida che sa di zolfo si sale slittando leggermente su un terreno infido, pietrisco, sabbia nera, rocce. I geologi e i vulcanologi che quotidianamente, tempo permettendo, vanno a fare le rilevazioni al cratere salgono leggeri, allenati, con l’indifferenza dell’abitudine. Le guide, vecchi, esperti, coriacei isolani, li guardano con un po’ di diffidenza; la salita al vulcano richiede forma e rispetto, non può essere, mai, un gesto automatico, un atto scontato. Ha i suoi tempi, ha i suoi riti, Iddu non perdona. Io salgo arrancando e scivolando all’indietro, affondo nella sabbia nera, guardo sotto di me l’isola che sprofonda nel mare, la vetta che si avvicina ma cela ancora il cratere, prendo fiato con la scusa di fotografare.
Infine, dopo una cresta sabbiosa, ecco la vasta irregolare spianata della cima, l’inizio del Pizzo sopra la Fossa che come una esigua terrazza s’affaccia sul colpo d’occhio infernale dei tre crateri. Appaiono gli shelter, che vuol dire semplicemente i rifugi, dei gabbiotti di cemento, da usare quando le pietre e i lapilli arrivano fin qui. Succede. Fra le molteplici forme della sua perenne attività lo Stromboli ha dei “parossismi”, esplosioni di particolare intensità che lanciano blocchi come bombe fin qui e disseminano lava incandescente fino ai boschi sottostanti.
La cima dello Stromboli non è un luogo adatto a chi soffre di vertigini o ha un equlibrio instabile. Ci si muove solo su creste e dossi sabbiosi e scivolosi che si aprono sul mare o sui crateri. Con cautela. Esclusi i tecnici della Protezione civile e dell’Ingv che con la confidenza dell’abitudine corrono su è giù come gatti o camosci, lasciando e agguantando cavi, droni, telecamere e microfoni. E’ una piccola elite internazionale accomunata dallo studio estremo, ci sono francesi, americani, tedeschi e la star del gruppo, un berlinese in camicia bianca e giacca di tweed che volteggia sull’abisso aggrappato a una corda piazzando microfoni in punti impossibili.
In cima c’è sempre vento, ed è una benedizione perché il fumo acre soffoca non appena l’aria si placa, ma alla lunga il borbottio di fondo rotto dagli scoppi secchi delle esplosioni ha un effetto ipnotico. E’ come se fosse troppo: troppo spazio, troppa natura, troppo fuoco e troppo fumo, troppo mare scintillante laggiù. Nulla di rassicurante, una natura islandese, leopardiana, matrigna e implacabile che come ti muovi ti fulmina, e ti convince a restare lì inerte, attaccato al suolo vulcanico umido e caldo, a guardare, là, in fondo, i brandelli di lava incandscente che, come sangue spinto dalle pulsazioni di un cuore, si spandono e si ritirano, incessantemente.
Lo spettacolo vero, dicono tutti, è a sera, quando all’imbrunire, il colore del fuoco spicca e accende tutto il cratere come una luminaria da effetto speciale. Ed è allora e solo allora che salgono le carovane di turisti incolonnati, dotati di lampada frontale, maglioni pesanti e foulard per proteggere bocca e naso, luci mobili sul fianco della montagna, piccoli eserciti armati di macchine fotografiche e treppiedi, e obiettivi, pronti a schierarsi e a resistere al vento e alla notte fino a quando non sarà scattata la foto perfetta.
Li incontro scendendo, mentre salto e scivolo in mucchi di sabbia color nero ossidiana densi e alti come neve, con la gioia di lasciarmi il vulcano alle spalle e tornare alla quiete e e al caldo del paese, alle granite del bar Ingrid, a un mondo mediterraneo, amichevole, protettivo. E mentre vado giù veloce il vulcano torna a essere una presenza accettabile, piccoli sbuffi soffocati di fumo, luce e rumore, un sottofondo non una minaccia.