IN VIAGGIO Il cielo di giugno dei Balcani interni, ancora in Croazia ma molto prossimi al confine bosniaco, è immenso e disegnato da nuvole maestose. Intorno a noi solo boschi e montagne a perdita d’occhio, un paesaggio per nulla antropizzato che sorprende maggiormente se paragonato alla nostra pullulante penisola italiana, al traffico continuo della Milano-Trieste, dell’autostrada del sole, specchio di un’Italia affollata, frenetica e ipertesa.
Da diverse ore abbiamo abbandonato la Slovenia, piccola Svizzera dei paesi slavi che la nostra preparata guida Franz definisce boscosa per il sessanta per cento del suo territorio e con un reddito medio decisamente più alto degli altri paesi balcanici. A sud di Karlovick, oltrepassiamo la cittadina di Podum, villaggio le cui case portano segni evidenti delle scorribande cetniche ai tempi della guerra.
Gli edifici a uno o due piani che non sono stati ristrutturati, mostrano tutti intonaci bucherellati da mitragliate. In periferia moltissime sono le case abbandonate, il paesaggio denota una vegetazione florida senza agricoltura, ancora tante case abbandonate e pochi centri abitati. Risulta evidente lo stato di abbandono di molte case di campagna. Diretti a Plivice via Podum. Tanti tetti in eternit, alternanza di abitati riammodernati e desolati. Siamo ai confini con la Bosnia, la natura circostante è dominata da vallate carsiche e doline, pochi i corsi d’acqua in superficie, mentre il resto viene convogliato sotto terra dalle deboli terre calcaree, intorno macchine agricole e auto di seconda o terza mano. Questa terra era contesa, immagino facesse gola il fiume, la ricchezza d’acqua, forse addirittura la bellezza, che ad oggi ne fa uno dei posti più visitati d’Europa. Oppure l’antico sogno serbo di aprirsi un varco sull’adriatico.
A diciassette chilometri da Plivice e centocinquanta dalla capitale Zagabria superiamo diversi cimiteri di fortuna, annegati nell’erba alta e ubicati in posti senza agglomerati urbani, recinti di semplice fil di ferro, sembrano davvero poco frequentati. Sembra che ai morti non sia rimasto nessuno e che ai sopravvissuti non siano più concessi i defunti. Ma la primavera inoltrata non è fatta per il dolore. Chiunque abbia creato questa stagione, è chiaro che per il mondo avesse in mente la speranza. Per questo i segni macabri del dolore risultano, se possibile, ancor più ingiusti, e l’assurdità di ciò che è stato incarna il peccato originale dell’Europa unita, l’orrore imperdonabile della sua evanescente politica.
Ci avviciniamo al parco nazionale di Plivice e migliora la qualità degli abitati e delle automobili, nonché il decoro delle abitazioni.
Il benessere economico spesso è visibile dall’esterno, non lo stesso si può dire valga per la felicità. Finalmente ecco il fiume Korima e d’intorno dappertutto spuntano affittacamere e camping. L’ultima destinazione di oggi è raggiunta come un alleggerimento, scemano i segni della guerra, finalmente siamo fuori dalla trincea dell’Unione, fuori dall’anima dolente della Croazia meridionale, che fra pochi giorni adotterà finanche la moneta unica. Dopo una doccia e un pasto che si spera generoso non mi rimane che cercare qualcuno disposto a spiegarmi ciò che ho visto durante il tragitto.
DENNIS IL CAMERIERE Chiedo spiegazioni con il mio inglese stentato e maccheronico a questo ragazzo di nome Dennis che nel ’92 aveva solo sette anni. La disponibilità è quella delle persone semplici, essenziali, molto vicina al nostro meridione d’Italia. Volto maturo ben oltre i suoi trent’anni, racconta ciò che temevo: la zona durante la guerra era preda delle scorrerie dei temibili cetnici serbi, i quali per diffondere il terrore e spingere alla fuga avevano il brutto vizio di legare le persone nelle proprie case e bruciarle vive, almeno questo è successo a suo padre e a chi non scappava prima. Ecco perché lui, e tutti i bambini della parte meridionale della Croazia sono cresciuti a Zagabria, ospiti di onlus e case-famiglia, e hanno potuto riabbracciare chi è sopravvissuto solo sette anni dopo, a guerra conclusa. Ecco perché non prova simpatia per i suoi ex connazionali.
– Tu che faresti? – ribatte sopprimendo un lieve moto di disappunto.
– Non c’è motivo di pensare ai serbi! –
Quanto alle case vuote, quelle abbandonate, è molto semplice:
– sono di chi è morto e di chi è andato via per sempre. Le abitazioni nuove di chi è rimasto o di chi ha avuto il coraggio di ritornare -.
Non c’è più molto da dire. Nella ferita perenne d’Europa, la fornace del risentimento etnico sempre accesa, produce scorie che nessun trapianto è in grado di assorbire, fino ad ora è una penisola nota per i numerosi rigetti, un pronto soccorso di interventi falliti. La povera consolazione che riesco a trovare è che si tratta di miseri fatti umani di cui, risulta evidente, la natura non si preoccupa. La primavera continua e qualunque cosa accada, lascerà spazio all’estate. Per ora sono sicuro che possa bastare.
Siamo nel mezzo di una bella giornata, sotto il cielo dei Balcani.
SANDRO ABRUZZESE