Sin dalla sua nascita al momento del suicidio dell’URSS, l’Uzbekistan è governato da Islam Karimov, ex segretario generale del Partito Comunista Uzbeco, successivamente riciclatosi come leader nazionalista e padre della Patria. Combinando un mix di repressione, clientelismo, innegabile scaltrezza politica e una generosa dose di paranoia, Karimov è rimasto in sella fino ad oggi, riuscendo ad imprimere sull’Uzbekistan il suo marchio di fabbrica. Il potere del governo e del Presidente sono immediatamente visibili già da una rapida osservazione della capitale, Tashkent.
Tashkent non è esattamente una città: non come la si immaginerebbe normalmente, almeno. Non ha vie e viuzze dove la gente gironzola, non ha le strade su cui si affastellano edifici vari, dietro ai quali si intravedono grattacieli o palazzi. A Tashkent, spesso, questo non succede. La capitale dell’Uzbekistan è una città politica. Percorrendola ci si rende conto che tutto, dalla disposizione delle vie alle dimensioni degli edifici, segue una logica politica ferrea. A partire dalle strade, che a Tashkent sono larghissime ed incredibilmente inutili, per una popolazione di due milioni di abitanti. Si possono facilmente vedere viali a sei corsie, autentici monumenti allo spreco, dove al massimo si incrociano un paio di Daewoo e qualche vecchia Lada. In realtà, questi nastri d’asfalto hanno una funzione ben precisa. Servono a difendere il potere: strade così larghe non possono essere occupate da folle inferocite. Non possono essere bloccate da rivoltosi, o chiuse da barricate durante proteste popolari. L’esercito, invece, può muovervisi rapidamente per schierare mezzi e divisioni antisommossa; e può reprimere eventuali rivolte simili a quelle che, nel vicino Kirghizistan, deposero due presidenti in soli cinque anni.
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Foto di Rotislav Smolin e Giorgio Montersino
A volte Tashkent sembra essere un mare verde: nel centro, le strade sono spesso adornate da lunghe file d’alberi che impediscono di vedere al di là della strada. L’effetto è stranissimo: è come essere in una città di cui non si riesce a percepire la tridimensionalità. Non si vedono edifici che sbucano da dietro ai palazzi, e molto spesso si fatica a cogliere la struttura urbanistica stessa. La sola cosa che emerge sono gli edifici governativi: gli alberi fanno da cornice a giganteschi palazzi tappezzati di marmo lucidissimo, scintillante, perfettamente lavorato. Impossibile immaginare quanti minatori devono aver lavorato come schiavi per creare questo delirio di ostentazione. Il risultato è che ministeri e istituzioni sono ospitati in autentiche regge, dalle dimensioni spropositate per un paese medio. Ovunque vi sono mastodonti di vetro e marmo che testimoniano lo strapotere dell’esecutivo. Dal palazzo presidenziale al municipio di Tashkent, ogni edificio pubblico è pacchianamente grandioso, imponente, sovradimensionato. Il che, peraltro, la dice lunga su quanta gente venga messa a lavorare dal regime al solo scopo di comprarne la fiducia.
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Foto di Sara-Lafleur-Vetter e Stefan Munder
Chiunque può notare che, a Tashkent, il consueto panorama delle periferie post-sovietiche ha qualcosa di strano. Chi ha viaggiato nell’ex-URSS, a Vilnius come a Vladivostok, è abituato alle enormi file di condomini grigi, inesorabilmente e desolatamente uguali, con un che di stile “stagnazione economica” veramente tipico. A Tashkent, però, le pareti grigie sono spesso coperte di enormi murales che si ispirano palesemente alla tradizione persiana, rielaborata come qualcosa di tipicamente uzbeco. L’obiettivo è molto semplice: si tenta (magari goffamente) di camuffare le vestigia sovietiche con i nuovi paramenti sacri dell’identità nazionale. Le statue di Lenin possono essere rimosse, e le vie “Rivoluzione d’Ottobre” possono diventare “dell’Indipendenza”; ma i grandi quartieri di edilizia popolare non possono essere abbattuti. Restano lì, grossi ammassi di cemento, a testimonianza dell’eredità russo-sovietica. Per questo, si tenta di cancellarla, o almeno addomesticarla, sovrapponendovi i simboli di una nuova identità nazionale. Istituzioni pubbliche come le scuole si premureranno di radicare tale sentimento nell’uzbeco medio. Nel frattempo, i muri dei condomini gli ricordano quotidianamente quale deve essere la sua identità, e i pannelli propagandistici sotto casa col benevolo volto di Karimov gli ricordano quale deve essere il suo presidente.
Di Fabio Belafatti