di Andrea Semplici
Cerco la paura. E non la trovo.
Eppure questa notte sono andato all’hotel Radinsson di Addis Abeba. A Bamako 27 persone sono morte nell’assalto jiadhista nell’hotel maliano di questa catena.
Quasi dieci giorni fa, sono venuto via dall’Europa nel giorno del dolore, nel giorno di Parigi. Qua sei lontano dai giornali. E le connessioni sono fragili, intermittenti. Non si parla di Parigi nei bar. Ne parliamo fra bianchi, a sera.
Ma dalla savana del Kenya, da un villaggio senza connessioni, è arrivato un messaggio e non so come sia stato possibile: ‘Cosa è successo a Parigi?’. Come è arrivata in quella solitudine la notizia? Lo hanno detto alla sola donna bianca che si trovava fra quelle capanne. Hanno pensato che la riguardasse.
La riguardava.
Guardò l’età dei ragazzi che non ci sono più: ho letto che è inferiore ai 34 anni. Hanno sparato alla meglio gioventù. Se mia figlia fosse stata a Parigi sarebbe stata al Bataclan. Se non fosse stato metal anche io sarei stato al Bataclan. A sparare su di noi sono stati altri giovani. Dalle foto segnaletiche appaiono ancor più giovani. Imberbi. Non sembrano i teppisti delle periferie. Hanno meno anni delle loro vittime. Quanto tempo ci vuole per addestrare un martire combattente? Non riesce a ripensarci nel tempo che ha a disposizione? Hansa aveva 26 anni e, raccontano, si è fatta esplodere con una cintura esplosiva. Aveva una vita normale, di lei, ci dicono, che era un manager di un’impresa edile. Come è stato possibile?
Non vi è una risposta a questi interrogativi. La banalità del male, è il solo pensiero. L’inspiegabile e l’osceno.
Adesso scopriamo che ogni giorno vi è un attentato in questo mondo.
Due guerre mondiali sono state combattute invano: nei Balcani venti anni fa, in Medioriente oggi quelle frontiere decise dal potere sono saltate. Erano arroganza e follia. Quel conto nessuno è stato capace di chiuderlo.
Anni fa abbiamo scoperchiato un vaso di Pandora e ora non sappiamo come rinchiuderlo.
Gli esperti dei numeri e della società italiana ci rivelano che il 46% di noi (del campione, immagino) eviterà di partecipare a manifestazioni ed eventi pubblici.
Ma io so che io e le persone che amo sarebbero state a Garissa a studiare in quel campus; so che ci saremmo seduti accanto a Wolinski nella redazione di Charlie Hebdo; so che saremmo usciti per strada in un quartiere di Beirut per andare a fare spesa; so che avremmo potuto prendere un volo low-cost per passare una settimana di sole a Sharm el-Sheick; so che saremmo stati in piazza a sognare un futuro diverso ad Ankara. So che saremmo andati, felici, a un matrimonio sulle montagne dell’Afghanistan proprio quando un ufficiale negli Stati Uniti ordinava un bombardamento con un drone. So che saremmo stati assieme agli infermieri e ai medici di Médecins sans Frontieres a Kunduz mentre veniva bombardato da aerei Usa.
So che non ci chiuderemo in casa. Che questa notte potrei dormire accanto all’hotel Randisson. Che andrò allo stadio per una partita. Che andrò a vedere una maratona correre per le strade del centro di una capitale africana. Che salirò sulla prima metropolitana in una città africana. Che passerò una sera con amici musulmani. E che con loro parleremo per ore. Cercando un linguaggio comune. E mangeremo assieme al ristorante sudanese.
Ho letto che Dario, il fratello di Valeria, ha detto: ‘Né paura, né rabbia. Lei non ce lo perdonerebbe’. Davvero, non possiamo fermarci.