Fotografie di Tony Giangiulio
Testo di Vittore Buzzi
“Non fotografo più, non mi sento più un fotografo…” sguardo lontano rivolto a un recente passato, Tony Giangiulio, classe 1967, è stato (a sentire lui) è (secondo me) uno dei fotografi più interessanti della mia generazione.
Dopo Luigi Ghirri la fotografia italiana ha fatto un po’ fatica a trovare qualcosa di innovativo, dei capi scuola… Sono pochi anzi pochissimi i nomi che mi vengono in mente. Sono stati anni intensi che hanno visto uscire la fotografia dal suo ambito ristretto e altamente autoreferenziale ed approdare piano nelle gallerie d’arte e nei musei d’arte contemporanea, meticciarsi con la letteratura, la poesia, l’installazione e il cinema. Si è affermato piano, in Italia, il concetto che la fotografia è arte se come tale viene utilizzata, sulla scorta delle grandi esperienze tedesche e anglosassoni.
Il mercato dell’arte ha logiche proprie spietate nella loro semplicità, bisogna far funzionare alcuni punti:
1) Gallerie;
2) Critici;
3) Amicizie e contatti;
4) Vendite.
Questo significa che l’artista fotografo contemporaneo diventa un nodo di una rete complessa e può capitare che se non riesce a far quadrare i “conti” , perché di questo si tratta, piano esca dalla “scena”. A meno che, questo è il caso di Tony Giangiulio, il suo “lavoro” non abbia una complessità e una forza tali che non possa essere dimenticato, nonostante il suo esilio lontano dalle dinamiche dei centri storici del mercato.
La poetica di Giangiulio ha radici solide che affondano nella scuola di paesaggio italiano ibridati però con il teatro, la perfomance, l’installazione e il racconto personale. Ecco comparire in “GANGE” sul greto di un fiume i giocattoli di bambino (rimando chiaro al famoso triciclo o ad una altrettanto famosa funivia) , il nome evocativo della grande madre e i simboli di un futuro su uno sfondo sfocato di vita…
Ecco il paesaggio e i sogni gonfiati diventano realtà… per poi piano appassire e diventare marginali e sfocati… Serie intensa, onirica, di impatto simbolico, devastante, inscritta in quel quadrato che rimanda ad una stabilità perduta e un ritorno alla terra, alle radici.
Ora è tutto allestito e la lotta alla sopravvivenza fra gli animali, gli spostamenti, i viaggi, gli agguati, tutto parla di altro… In paesaggi e scene preparate meticolosamente come uno story board per il cinema.
Questa capacità di Tony Giangiulio di fare della fotografia qualcosa d’altro, di rimandare ad immaginari collettivi dell’occidente, di calarli nella dimensione del personale e di riaprirli al mondo, di utilizzare il banco ottico, il 6×6 e infine il digitale ripercorrendo la storia della fotografia stessa (come faceva notare Debbie Bibo) e di raggruppare queste splendide serie in una mostra di qualche anno fa con il titolo “Finzioni” fanno di lui un autore di interesse eccezionale.
Sono tante altre le sue serie e meriterebbero una attenzione maggiore da parte del mondo della fotografia contemporanea, ma la sua scelta di vita attuale, appartata e solitaria lo rende un escluso eccellente.