Testo di Giulia Buriano Aimonetto | Foto di Giulia Brunella
Ritardo, sei sempre in ritardo. Quel vizio, se così si può definire, che non riesci proprio a perdere, nemmeno in una giornata del genere. Oggi non puoi permetterti di ritardare, non è un giorno fatto per dormire. Fai fatica ad alzarti e combatti contro il tuo sonno che ti invita a riabbracciarlo, ma resisti, sai che devi, che vuoi. Scendi al piano di sotto con i sensi ancora inattivi. Arrivi in cucina, non trovi nessuno, meglio così, odi parlare di prima mattina. Accendi il fornello e sopra ci metti il bollitore, sempre con poca acqua, per fare prima. Il tè non lo vuoi ustionante, ti dà sui nervi quando scotta, non riesci a godertelo. E quando esce così riempi la tazza a metà, in modo da poter versare nella restante parte dell’acqua gelata, per bilanciare. Il tè lo ami tiepido a colazione. Quella mattina non solo ti fai il tè bollente, te ne versi anche un po’ addosso e dai la colpa ai tuoi sensi smorzati. Alla fine non te la prendi nemmeno troppo, non è un giorno fatto per arrabbiarsi. Così facendo però ti ritrovi più in ritardo di prima e la tua amica è già per strada. Ti dice di calcolare un quarto d’ora, credi di potercela fare. Poi però ti si para davanti il problema dei vestiti: sai che stai andando a camminare e che suderai, quindi non importa cosa mettere, basta sia nero, così si vedono meno le chiazze della fatica. Credi di farti sempre troppi problemi, chi vuoi che ti veda in montagna? E per di più in un insulso giovedì di settembre, in cui la gente lavora, non cammina, o almeno, se lo fa, non si diverte.
Comunque l’amica arriva, anche lei in ritardo, pensi che ti abbia gentilmente regalato del tempo in più per prepararti. Andiamo a recuperare anche la fotografa, che invece è già pronta e ci aspetta fuori dal cancello di casa. Una su tre si salva. E poi di nuovo su per quelle stradine strette, verso i tornanti di Ceresole e quella galleria infinita. Anche il parcheggio è sempre sotto alla diga del lago.
Scendiamo dall’auto consapevoli della fatica che ci attende, ma al contempo curiose: ce ne hanno parlato proprio bene di quel lago, quello specchio d’acqua nato in solitario ed incastonato in una sconfinata distesa di erba. Il percorso parte in salita, s’inerpica subito tra gli alberi del bosco, che ci proteggono dai violenti raggi solari di quel dì di settembre. Fa ancora molto caldo in quel periodo e non c’è un filo d’aria. Arriviamo ad un ponticello di legno che affaccia su un rigagnolo e ci prendiamo qualche istante di pausa per fare delle foto. Ci siamo solo noi e il rumore dell’acqua, che cade dolce sulle rocce.
Ci aspetta poi un’altra salita, sempre circondata dagli alti fusti della flora circostante, sembra interminabile sta volta. Tra le fronde degli alberi s’intravede uno scorcio che dà su un infinito blu, che, come una calamita, ci attrae verso di sé. Sporgendoci un po’ più in là sulla riva lo riconosciamo: è lì che ci sorveglia. Come un guardiano delle nostre vite il lago di Ceresole controlla ogni nostro passo e ci rassicura: finché lo vedremo, sapremo di essere sulla strada giusta. E anche se il tempo passa e il bosco s’infittisce, lui rimane lì, pronto a passare il testimone alla natura che lo sovrasta. Così le chiome ci inghiottono nella loro ombra e nella loro frescura passeggiamo, quattro anime all’unisono, noi tre e la foresta. Dopo un’abbondante mezz’ora di camminata ci si para davanti un filo elettrificato, uno di quelli che mettono i margari per non far uscire le mucche dai pascoli. La valle sembra aprirsi e il suono silenzioso del bosco si rompe, lasciandone subentrare uno familiare, quello dall’acqua. Grazie alla sua presenza capiamo di essere vicine alla meta. E mentre camminiamo con trepidazione ci si apre davanti uno scenario da pelle d’oca: un prato dai toni verde-giallo con alle spalle le vette già innevate delle cime del Gran Paradiso. Le sensazioni sono duplici: vi è sia quella romantica di piccolezza davanti alla vastità della natura, ma anche una quasi contrastante, di intesa, accordo. Mi riconoscevo in quel paesaggio e in qualche modo sentivo che quello si riconosceva in me. Avrei voluto rimanere lì per sempre.
Il rumore dei campanacci mi riportano alla realtà e mentre cerco la fonte di quel suono, iniziano a dipingersi all’orizzonte delle macchie bianche che brucano l’erba incontaminata di quel versante. Mucche, un sacco di mucche libere a 2000 metri. Sono certa che non lo avrebbero mai valicato quel filo, non ci avrebbero nemmeno mai pensato. Quella vita non l’avrebbero scambiata per nessun’altra e quale prospettiva migliore se non quella dell’indipendenza? Al di là del pascolo spunta una timida collina, che nasconde gelosa il suo oltre. La scaliamo velocemente, capendo di avercela fatta e infatti ecco lì, il lago di Dres nella sua placida meraviglia. Colorato in parte dal verde delle conifere e in parte dal grigio-bianco delle montagne circostanti, in un riflesso di piani e di spigoli. E c’è il sole sì, ma tira vento forte, l’aria è così cristallina che trapassa persino il mio maglione. Ci accampiamo lì per tre o quattro ore, nella completa quiete naturale. Mangiamo, fotografiamo, ci isoliamo a pensare; qualche animaletto si avvicina persino per bere, senza curarsi di noi. Mentre rifletto, quella sensazione di armonia si ripropone, investendomi. E lì capisco che ciò che realmente vorrei è che quell’ insulso, per i molti, giovedì di settembre durasse in eterno, perché in quell’accordo ho trovato, per un istante, il senso della mia vita.