Testo e foto di Tommaso Chimenti

Trieste è D’Annunzio, Trieste è Strehel, Trieste è Joyce. Audaci per loro natura, sperimentatori, sguardo oltre. Qui il molo prosegue nel mare, s’appuntisce mentre i gabbiani cantano striduli e fanno gruppo aspettando le briciole nemmeno fossero piccioni. Sembra una pista d’atterraggio dove prendere la rincorsa per alzarsi da questa portaerei granitica che respira profonda nell’Adriatico. Camminare fino in fondo per sentire la brezza che spazza, l’onda che sbatte, le folate che arrivano a schiaffo.

Questa lingua nel mare pare lecchi il salato per sentirne ancora il sapore ruvido, quasi un Circo Massimo che sfocia nel blu. E la curiosità ti spinge fino in fondo, non so a cercar che cosa perché già sai, appena imbocchi questa striscia che sembra d’essere su una portaerei, che laggiù solo il mare e niente più. I bambini fanno lo slalom tra i grossi pioli per arricciolarci le funi spesse, la schiuma traballa, carezza forte la pietra porosa. E da là in fondo, con il mare alle spalle, Trieste, davanti, è ancora più luminosa e bella. Abbaglia.