Viaggio a Slavutyč, progettata per accogliere gli sfollati di Chernobyl
Testo e foto di Marco Boscolo
I bambini sono tutti nati dopo. Se ne stanno a mollo nella bassa acqua della fontana quadrata, in costume, come se fosse la piscina di un villaggio turistico. Quando si tuffano o si rincorrono alzano sottili spruzzi che atterrano poco lontano dai tavolini del bar dove sono seduto all’ombra. Gli adulti bevono vodka e birra, fumano e li guardano con un mezzo sorriso. La piazza, oltre la fontana, è immensa, assolata e regolare come un sogno razionalista, dove le ombre possono avere solo angoli precisi, netti. Se la statua dell’angelo simbolo della città che si intravvede sullo sfondo, verso il campo di atletica, non stesse in cima a quelle figure geometriche di cemento dipinto di bianco, potrebbe quasi passare per una piazza metafisica dipinta da De Chirico. Così, invece, sembra solo la pista d’atterraggio per un’astronave che non arriverà mai.
Gli adulti sanno, perché c’erano. Nessuno di loro è nato qui: la città non esisteva. Ci sono arrivati dopo, costretti dagli eventi della storia a trasferirsi in questa città nuova di zecca, costruita a tempo di record per compensare un fallimento enorme, che ancora oggi è una ferita sanguinante per l’Ucraina e il mondo intero. Ma all’epoca era ancora Unione Sovietica, e l’Ucraina era solo una delle repubbliche federate, unite ancora flebilmente attorno ai cocci del sogno comunista.
Slavutyč è l’ultima città fondata dall’URSS a soli quarantacinque chilometri in linea d’aria da Pryp’jat’, la città ideale alimentata dalla potenza dell’atomo e dove tutti gli ingegneri volevano andare a vivere. Perché c’erano gli stipendi più alti dell’intera Unione, perché con un taxi acquatico potevi arrivare nella metropoli – Kiev – lungo il fiume Dnipro, perché la centrale di Chernobyl dove la maggior parte delle persone lavorava era l’ultimo orgoglio tecnologico sovietico. Fino alla fatidica notte tra il 25 e il 26 aprile del 1986, quando ha avuto inizio il più grave incidente nucleare mai registrato fino ad allora. Una parte di coloro che sono sopravvissuti è venuta qui e, magari, adesso sta guardando i bambini sguazzare nell’acqua della fontana, sperando che il loro futuro sia meno nero del proprio.
Dopo la messa in onda, con grande successo internazionale, della serie tv Chernobyl, i tour per visitare l’exclusion zone sono sempre pieni, con la domanda che continua a crescere. Si va a visitare Pryp’jat’ per vedere il parco giochi mai inaugurato e farsi le foto con gli autoscontri o la ruota panoramica arrugginiti. O per passeggiare tra i boulevard oramai ricoperti di alberi, per immortalare l’ingresso del municipio diventato centro di coordinamento per i soccorsi durante l’emergenza, o ancora per scovare i murales che i writer hanno dipinto sui muri dell’edificio delle poste o del più moderno albergo dell’Unione Sovietica. Ma nessuno di questi turisti televisivi viene qui, a vedere l’altra metà della mela, la risposta del governo di Mosca all’emergenza abitativa per gli sfollati.
Qualcuno sostiene che il disastro nucleare di Chernobyl sia stato l’evento che ha innescato la dissoluzione dell’URSS, o per lo meno l’ha accelerata. Di sicuro la costruzione di Slavutyč è avvenuta sotto l’influenza di due spinte contrastanti. Da una parte c’era la mobilitazione d’orgoglio per dare un tetto ai compagni sopravvissuti all’incidente, che si trovavano improvvisamente senza casa, senza città e senza lavoro. Dalla parte opposta si diffondeva la frenesia di dover fare in tempo, perché il segretario del Partito era già quel Michail Gorbačëv che con la sua perestrojka avrebbe traghettato il mondo comunista verso l’economia di mercato. Mosca convoca in Ucraina maestranze e architetti da tutta l’Unione e chiede loro di realizzare nel più breve tempo possibile una città modello che incarnasse quello che rimaneva dell’ideale di amicizia tra i popoli sovietici.
Il risultato, perfettamente visibile ancora oggi passeggiando per i suoi quartieri, è la giustapposizione di otto stili architettonici diversi, ognuno manifestazione della tradizione di una repubblica. Si passa così delle villette di legno dal tetto spiovente del quartiere Tallin alle influenze mediorientali e caucasiche dei quartieri Baku o Erevan. Per certi versi l’effetto è straniante, come se si visitasse una specie di Unione Sovietica in miniatura o uno di quei villaggi che nei paesi dell’ex blocco comunista mettono in mostra gli usi e i costumi dei popoli rurali. Otto capitali di altrettante repubbliche sorelle di allora, oggi destinazioni per cui dall’Ucraina bisogna probabilmente chiedere un visto.
Sarebbe superficiale, però, fermarsi a questo livello di interpretazione, perché la pianificazione di Slavutyč è molto più profonda. Ogni quartiere, infatti, era pensato per offrire tutti i servizi essenziali ai propri abitanti, con l’architettura e l’urbanistica che non erano solamente esercizio estetico in diversi stili, ma vero e proprio specchio dell’organizzazione sociale ideale che ancora permaneva. Che si scelga di visitare il quartiere Vilnius o Belgorod partendo dalla piazza centrale della città si incontra sempre la stessa stratificazione, come anelli di una cipolla di cemento. Le case per gli operai sono quelle più vicine al centro e ai servizi, e mano a mano che ci si allontana si incontrano alloggi più grandi, riservati a chi aveva posizioni più elevate e quindi poteva anche permettersi l’auto per gli spostamenti. In questo modo, avrebbe dovuto scomparire il concetto stesso di periferia e dare a tutti gli abitanti della città la stessa facilità di raggiungere il cinema e il teatro per uno spettacolo, ma anche la piazza per le manifestazioni patriottiche e politiche. Continuando a camminare, improvvisamente ci si trova in una grande strada a quattro corsie, oltre la quale non c’è più nulla: la città ideale finisce bruscamente e nettamente, come se non avesse avuto nemmeno il tempo di una sbavatura, di un piccolo ghirigoro oltre i confini stabiliti.
L’impressione che la città sia un miraggio, una specie di oasi in mezzo a un deserto verde fatto di steppe e boschi di conifere è amplificato dalla sensazione che i 25 mila residenti di oggi siano molti di meno di quelli per cui la città è stata progettata. Torno verso il centro e decifro con lentezza le scritte in cirillico. Le scuole sono indicate semplicemente con un numero, scuola numero uno, numero due e tre, mentre gli altri edifici pubblici sembrano raccontare un’altra storia. Il supermercato si chiama Soyuz (‘unione’), l’alimentari poco più in là Kosmo, il centro commerciale Галерея Слави, la ‘Galleria della Gloria’, a ricordare quale era il sogno di allora, di quel 1988 quando i primi inquilini prendevano possesso degli alloggi. Un sogno che si riflette, sbiadito e deformato anche nel piccolo Museo della città: plastici che mostrano come sarebbe dovuto essere il futuro, la chiave simbolica per l’inaugurazione della centrale nel 1977 e in qualche modo spostata qui dagli eventi della storia, le foto degli anni Ottanta che sembrano progetti Bauhaus fuori tempo massimo.
Il sole sta calando e i bambini hanno abbandonato la fontana. Mi dirigo verso la stazione dei treni, a sud del centro. La piazzetta che vi dà accesso è un caos organizzato: non c’è via d’uscita e sembra che sia l’ora di punta, con i pendolari che tornano a casa per cena. Ancora oggi il principale datore di lavoro per gli abitanti di Slavutyč è la centrale nucleare, che non è più il fiore all’occhiello dell’industria atomica sovietica, ma sotto al sarcofago custodisce ancora un cuore radioattivo che va accudito quotidianamente. Mi immagino la linea ferroviaria come un cordone ombelicale che non può essere reciso e che continua a tenere legati i destini delle due città. Mi domando come deve essere prendere il treno la mattina, un treno un po’ speciale, che non fa fermate intermedie, perché dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica il lembo di foresta tra Slavutyč e Chernobyl è diventato territorio bielorusso. Chissà se qualcuno dei bambini della fontana diventerà uno dei pendolari che vedo adesso. Se succederà ci sarà un piccolo slittamento di significato, perché a differenza degli sfollati che sono arrivati qui nel 1988, per questo lui o lei del futuro non si tratterà di un ritorno a Chernobyl, ma quasi di una visita a un momento di un passato che non ha vissuto.