Testo e foto di Francesco Parrella

Dopo il tramonto con la città quasi tutta al buio Kathmandu sembra più terremotata di quel che è. La poca energia elettrica che viene immessa nella rete in alcune ore del giorno non raggiunge tutta l’area urbana. Il problema c’era anche prima che la terra tremasse il 25 aprile scorso, il terremoto non ha fatto altro che aggravare la situazione. Il Nepal non ha riserve e il combustibile deve importarlo. Prima del terremoto solo il 40 per cento della popolazione aveva accesso all’elettricità, ora la forbice si è ristretta. Di giorno tutto sommato la luce solare riesce ad entrare anche nelle minuscole botteghe al piano stradale all’interno di vecchi edifici in legno decorati con intarsi d’arte nepalese permettendo ad artigiani e negozianti di continuare le attività. Di giorno almeno, con le strade affollate di gente, moto e ciclorisciò, la città sembra riconquistare una sua normalità.
Il terremoto ha devastato il Nepal a macchia di leopardo. Nella stessa Kathmandu ci sono zone come Thamel, il quartiere turistico della città con le sue vie piene zeppe di tour operator e negozi che vendono pashmine o attrezzature da trekking, dove la maggior parte degli edifici non ha subito danni. «A crollare sono stati per lo più edifici costruiti in economia, con mattoncini in argilla e poco ferro e cemento», racconta un imprenditore locale. I danni al patrimonio Unesco di Durban Square le cui immagini all’indomani del terremoto hanno fatto il giro del mondo sono pesanti ma la maggior parte dei templi è ancora in piedi. Come a Patan, l’antica Lalitpur. Qui i templi di Durban Square non hanno subito grossi danni. Tutt’altra sorte è toccata ai templi nell’omonima piazza di Bhaktapur andati pressocchè distrutti. Dei 4,4 miliardi di dollari stanziati per la ricostruzione gli effetti visibili del risanamento sono esigui. Pochi i cantieri aperti e un lavoro immane da fare. Tra i privati chi può, economicamente e fisicamente, provvede da solo e con le forze della propria famiglia a mettere in sicurezza l’abitazione o a costruirne una nuova. Le vie sono libere dalle macerie ma restano i cumuli agli angoli delle strade. Si gira tra la polvere degli edifici crollati e quella che si solleva dalle strade di terra battuta. Gli scarichi di moto e auto che congestionano il traffico rendono l’aria ancora più irrespirabile, e diventa difficile girare senza mascherina.
Non è mai stata facile la vita in Nepal, che il terremoto ha reso solamente più vulnerabile. Stretto com’è tra Cina e India, il Paese con le cime più alte del mondo è anche un nano tra giganti. Da una parte c’è la mano tesa della Cina, stretto alleato del Nepal dopo la fine della monarchia e l’affermazione dei maoisti in Parlamento, che nel 2014 ha superato l’India per investimenti diretti e donazioni verso il suo vicino. Dall’altro lato il governo di Delhi non è disposto a perdere la sua storica influenza sul Nepal, da cui attinge preziosissime risorse idriche provenienti dalla catena Himalayana indispensabili all’agricoltura indiana. La prima prova di forza si è avuta dopo che il Congresso nepalese ha approvato il 19 settembre scorso la prima Carta costituzionale del Paese. Il documento varato dopo un lungo iter ha scatenato le immediate reazioni delle comunità nepalesi di origine indiana, i Madhesi e i Thoru, discriminate a loro dire dalla Carta per come ha ridisegnato i confini delle Province e minato la loro autonomia e il loro potere di rappresentanza. Ci sono state aspre proteste e disordini alle frontiere con l’India che hanno causato una cinquanta di morti. Per cinque mesi le agitazioni hanno bloccato l’ingresso in Nepal a tir carichi di carburante e generi alimentari. Di fatto un embargo, mai dichiarato dall’India, che ha messo ulteriormente in ginocchio il paese himalayano. La svolta è arrivata nel mese di febbraio, dopo che sono state apportate alcune modifiche alla Costituzione. Le proteste, anche dopo le pressioni della comunità internazionale, sono cessate e i confini sono stati riaperti. A Delhi c’è stato un incontro tra il premier indiano e quello nepalese, ma sulla vicenda ancora non c’è una soluzione condivisa dalle comunità che hanno promosso l’agitazione. Da febbraio comunque la situazione ai confini è tornata alla normalità e le merci continuano regolarmente a raggiungere il Nepal. «Da settembre, invece, mese d’inizio delle proteste quando anche a Kathmandu iniziarono a scarseggiare cherosene e generi alimentari, e al mercato nero costavano il doppio, i prezzi sono raddoppiati. E con meno di duecento euro al mese di stipendio è diventato difficile vivere», dice un giardiniere di un parco pubblico della Capitale. Ansiosi di tirare un sospiro di sollievo sono anche gli operatori alberghieri, ristoratori, titolari di agenzie turistiche, in questo caso incoraggiati dagli arrivi registrati a Kathmandu nei primi mesi dell’anno. «Rispetto a prima del terremoto c’è ancora il 40 per cento di presenze in meno, ma i turisti stanno ritornando in Nepal, siamo ottimisti», afferma il titolare di un resort. «Per noi nepalesi i turisti sono sacri. Dopo Dio e la famiglia vengono loro», dice senza scherzare poi tanto un ragazzo all’ingresso del tempio di Pashupatinath, dove prova ad inventarsi la giornata proponendosi come guida ai turisti stranieri. Soprattutto a Kathmandu in tanti lavorano nel settore turistico, alberghiero e della ristorazione. Ciononostante il turismo rimane una fonte importante di valuta estera ma non la parte trainante dell’economia nepalese. Andare ora in Nepal significa però contribuire, col prezzo del biglietto pagato all’ingresso di templi e musei, anche a finanziare la ristrutturazione dell’immenso patrimonio artistico scampato alle macerie e, si spera, ai tempi (non) lunghi della ricostruzione.