testo di Paolo Albera
foto di Luigi De Palma

 

Collisioni, da anni, è il festival più “grosso” che ci sia in Piemonte. Eppure si fa in un posto piccolo in mezzo alle Langhe. Se dici Langhe non pensi più alla povertà di inizio Novecento, ai partigiani, a Pavese e Fenoglio. Quando pensi alle Langhe, ora, pensi al vino buono. Quando pensi al vino buono pensi al Barolo. Barolo è il nome del posto piccolo dove si fa Collisioni.

_MG_5529Il festival unisce concerti e incontri con scrittori, musicisti, personaggi del cinema e dello spettacolo. È un po’ il “Che tempo che fa” nel palinsesto degli eventi estivi di questa regione (a corroborare la bizzarra tesi vedrò lo stoico Paolo Maria Noseda, voce interprete del programma di Rai3, a tradurre le parole di tutti gli ospiti stranieri). Tutto si svolge all’interno del paese, arroccato su una collina: gli organizzatori hanno architettato un sistema di parcheggi e navette che consente di accogliere tutti senza intasare le strade. Un piccolo sacrificio nella comodità, un grande vantaggio nell’atmosfera: solo un pubblico sufficientemente motivato parteciperà. Il prezzo è tranquillo (10 euro per tutta la giornata, e se vuoi vederti il concerto finale dipende: i Placebo per esempio sono a 40 + prevendita).

Partiamo alla volta delle Langhe: Autostrada dei Fiori, uscita Marene e poi Cherasco, e poi una statale molto curvy in mezzo alle colline. Intanto parliamo di “lavoro”: siamo solo noi, quelli con il mal di testa, che hanno passione e sogni ma no tengono dinero. Intanto ci accoglie lo scenario delle Langhe, paesaggio spettacolare disegnato dall’uomo e voluto dagli dèi per produrre il nettare d’ambrosia. Location per matrimoni in ogni dove. Le Langhe sono un po’ la Toscana del nord-ovest.

Arriviamo di buon mattino. Lasciamo l’auto nel parcheggio e aspettiamo la navetta che ci porterà in paese. Le navette sono già piene e ci complimentiamo a vicenda perché tardare dieci minuti avrebbe significato il delirio. La navetta sale e ci deposita all’ingresso di Barolo. Facciamo la coda per i controlli. Io ho solo il sacchetto coi panini, invece Luigi ha lo zaino professionale con macchine e obiettivi e altri gingilli. Non gliela controllerebbero neanche, ma lui fa comunque il collaborativo e apre la zip per mostrare i suoi gioielli. (Stiamo parlando di apparecchiature fotografiche, ovviamente.)

Entriamo in paese. La Piazza Blu è al fresco, molte sedie sono ancora libere e ci sediamo per guardare programmi, cartine, architettare un piano. Poco più in là c’è una panetteria che dà birra alla spina a 2 euro: diventerà il nostro punto di riferimento, il nostro pronto soccorso.

La giornata inizia con un bel pacco tirato da Mauro Corona, che non si presenta per problemi di salute. Sono contento di saperlo oggi brillantemente ripreso tanto da inseguire con l’accetta ignoti intrusi in casa sua. Approfittiamo del tempo morto per aprire panini, bere birre e pianificare. Il metodo che seguiremo è semplice: Luigi saltellerà agilmente da evento a evento, per avere foto di tutti gli incontri. Io mi dedicherò solo ad alcuni, dall’inizio alla fine, perché molti sono concomitanti e seguirli tutti è impossibile.

Jonathan Coe

Jonathan Coe

Intanto la gente comincia ad accaparrarsi i posti a sedere per sentire Roberto Saviano che sarà qui tra due ore. Ucciderebbero per un posto e penso seriamente di mettere il mio in vendita a caro prezzo. Indagano: “resti anche per Saviano?” e io faccio il vago: “non so, ci sto pensando”. Intanto mi ascolto Jonathan Coe, che insieme a Carlo Lucarelli parla di come si fa a raccontare storie nell’epoca dei 140 caratteri. Lo scrittore inglese dice che i libri oggi hanno ancora più senso, per conquistare l’attenzione del pubblico, e non lasciarla disperdere in frammenti di bit. Poi racconta: “Un mio libro ora si legge a scuola, ed è come fosse storia antica. C’è un punto in cui un personaggio entra in una cabina telefonica. L’insegnante mi ha detto quanto gli alunni rimangono impressionati dal fatto che uno entra in… una cabina telefonica!”

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Paola Turci

Lascio a malincuore il mio posto a sedere al fresco: vado in Piazza Verde, c’è Paola Turci. “Scrivere è scoprire: guarda, quella sono io e non lo sapevo”. Paola Turci è una miniera di aneddoti, beve volentieri (una di noi!) e risponde volentieri alle domande di Luca De Gennaro. Racconta della famosa cicatrice (che per me è sexy, tra l’altro) causata da un incidente: prima stava diventando un’attrice, e questo episodio le ha cambiato la vita. Da allora, un periodo di mille tecniche diaboliche per nasconderla senza dare l’impressione di nasconderla. Ci canta qualche pezzo, e un po’ si commuove nel vedere quanta gente è qui che pende dalle sue labbra (“all’una e mezza, sotto il sole, pensavo non venisse nessuno!”). La sua rivelazione finale è ciò che ha ispirato la sua ultima canzone. Il suo “secondo cuore” è… il bagno. Da piccola stava in bagno a imparare a suonare la chitarra. Grazie Paola, che come tutti i chitarristi sai quanto è magica e potente l’acustica del bagno!

Stefano Bartezzaghi

Stefano Bartezzaghi

In Piazza Rosa Stefano Bartezzaghi inizia a parlare e incantare coi suoi magheggi. Ebbene sì, il tema è i “magheggi”, parola sospesa tra magherìa e maneggi, e così via con giochi di parole e anagrammi. Gli anagrammi gettano un ponte inedito fra parole apparentemente senza collegamento: LA VERITA’ a volte è RIVELATA, ma altre volte è RELATIVA. Insomma, ha scritto un libro che si chiama “PAROLE IN GIOCO”, un titolo POCO ORIGINALE: voleva vedere se avevamo capito.

Faccio un salto in sala stampa (mai stato in una sala stampa…) a vedere cosa si dice. Odo una voce che mi si rivolge, ed è Matteo Miglietta, vecchio compagno di rock, splinder e nightlife, che ora fa il giornalista per Rete7. Mi racconta un aneddoto di Francesco Facchinetti che in mattinata parlava con Red Ronnie: il nostro caro DJ Francesco (figlio nientepopodimeno che di Roby Facchinetti dei Pooh) a 18 anni cantava in una band che suonava – mettiti comodo perché ti sto per dire qualcosa di devastante – le cover punk dei Pooh! Capito? Figlio dei Pooh che canta canzoni dei Pooh in versione punk. Cos’è questa se non una definizione perfetta dell’adolescenza?

Altro passaggio in panetteria. Signora fa la brillante con giovane panettiere: “Qui a Barolo, quali altri vini bianchi avete oltre al Barolo?”

Torno in Piazza Verde perché mi interessa Raphael Gualazzi. Parla di jazz e svela com’è nata la sua canzone più famosa, “Follia d’amore”. Aveva appena letto un libro su Johann Strauss, che aveva composto il famoso valzer “Sul bel Danubio blu” prendendo spunto dal cigolìo delle carrozze. Hai presente? Paraparappappà – gnic gnic – gnic gnic! E lo stesso ha fatto lui con “Follia d’amore”, prendendo le prime tre note da… Oh dannazione, non sono stato attento, non riuscivo a togliermi dalla testa quella storia pazzesca del gnic gnic delle carrozze di Strauss!

Intanto, 1300 km a nord ovest, Roger Federer vince a 36 anni il torneo di Wimbledon. Ottava volta in carriera: nessun tennista ci era mai riuscito. Per le vie di Barolo se ne parla con tennistico understatement.

Mentre passo di nuovo dalla Piazza Blu sta per iniziare l’incontro con Mannarino. Visto che sono qua, penso, perché non fermarmi un attimo? Mi fermo a lungo, in attesa. La compagnia accanto a me critica le norme di sicurezza che vietano di introdurre i tappi delle bottiglie di plastica. Oh, Mannarino ha un pubblico così ribelle. Boato: entra Paolo Giordano, che condurrà l’intervista. Altro boato: entra Mannarino. E poi per dieci minuti buoni è un monologo di Paolo Giordano, e Mannarino sta lì a sentire. Me ne vado (non so se poi Mannarino abbia detto qualcosa o no).

Jeffrey Eugenides

Jeffrey Eugenides

Incontri belli e interessanti che sono riuscito a vedere solo in parte: Jeffrey Eugenides e Joyce Carol Oates, scrittori che attraggono meno pubblico dei divi del pop, ma non per forza è un male. Mi perdo totalmente Giorgia, Luigi si perde Matt Dillon, ma è impossibile essere onnipresenti e piazzare la bandierina su tutti gli eventi.

È pomeriggio inoltrato, Luigi si ricongiunge con quella che io chiamo “la lobby dei fotografi” dei concerti torinesi, iniziano a parlare del concerto dei Placebo in serata. Io lascio un po’ stare gli incontri e inizio a vagare in maniera casuale: mi ritrovo dentro il Castello di Barolo, sede del Museo del Vino, ed è un’esperienza sorprendente. La visita parte dalla terrazza in cima al castello, che guarda su tutte le Langhe, ogni collina un paese, ogni paese un campanile. Dritto davanti a me c’è il cedro centenario piantato a metà Ottocento da una coppia di sposi. Faccio instafoto tipo turista giapponese. E poi inizio la visita, che non è scientifica o didascalica, ma dà una serie di suggestioni sul significato del vino nei secoli, per i popoli, per gli artisti, per gli scrittori, per gli dèi, per i preti e per gli aristocratici savoiardi che fecero l’Italia. Luigi mi chiama, la lobby sta andando a cenare in un’enoteca, li raggiungo.

Un panino con salsiccia di Bra e un bicchiere di Nebbiolo sono già qualcosa, ma rimanderemo l’esperienza enogastronomica esemplare a un’altra volta. Ascolto le chiacchiere dei fotografi in materia di accrediti, testate, colleghi, gossip. Paghiamo e usciamo, loro vanno in sala stampa a vedere cosa si dice, li seguo per il caffè.

E poi Placebo.

Quello che è stato il concerto dei Placebo l’ho scritto appunto su RumoreMag. Mi è piaciuto, è la prima volta che li vedo dal vivo, sono contento. La voce di Brian Molko ha un po’ insegnato l’inglese al ventenne che sono stato: si capiscono facilmente le parole, diversamente da tutti gli altri rockers anglofoni. Grazie Brian per scandire bene quello che dici! Incontro miei amici che li conoscono bene, con loro condivido le canzoni d’annata preferite. Al primo posto per me c’è “I know”, che però Brian Molko canta in una tonalità più alta, con quel risultato tipico di quando ti senti forte e pieno sulla strofa, ma arrivato al ritornello non riesci ad arrivare alle note alte, e allora improvvisi qualcosa enfatizzando le parole. Alcune canzoni di quel cd (il primo) vengono suonate rallentate, non so perché. Forse perché quelle canzoni gli sembrano così immature, semplici, inesperte. Ma sono quelle che amo, e amo i Placebo anche se non le amano più.

Intanto Luigi De Palma ha già concluso i suoi scatti sotto palco ed è tornato a casa anzitempo insieme a qualcuno della lobby dei fotografi. Lo capisco: una giornata bella tosta, e poi domani dovrà di nuovo tornare per fotografare Robbie Williams (peccato non esserci) e ancora il 27 Luglio per gli Offspring (nel frattempo la nostra panetteria avrà alzato le birre a 3 euro).

E allora, finito il concerto, “faccio come quelli che vanno”, da solo dribblo la folla ad ampie falcate per raggiungere la navetta prima possibile: è stata una giornata intensa e sono desideroso di raggiungere il letto. Tra la folla qualcuno parla di “estetica iconoclasta” di Bran Molko. Arrivato al parcheggio, una ragazza mi chiede di mettere la sua scheda nel mio cellulare perché non trova più il suo fidanzato e ha il cellulare scarico. Umanamente mi spiace, ma è una bella seccatura prendersi cura di questo caso. Per fortuna la sua scheda non è compatibile con il mio cellulare. Lo so, sono un mostro, ma sono innocente. Passato l’ultimo ostacolo che mi divide dalla mia Panda impolverata di sabbia da parcheggio, accendo il motore e poi la radio. Su Radio2 c’è elettronica, su RBE c’è jazz, scelgo jazz e arrivo a Torino in tempo ragionevole. Tira un venticello fresco che mi fa chiudere il finestrino e non disperdere i ricordi. Il retrogusto è robusto, me lo godo di gusto, e se fosse domenica anche domani sarebbe bello e sarebbe giusto.

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Paolo Albera, 37 anni (che è diverso da dire “nato nel 1979”: se gli autori di questa rivista si dimenticheranno di aggiornare l’età potrà essere giovane forever), scrive di matrimoni, di musica e di un quartiere di Torino che si chiama Polo Nord, in cui vive.

Luigi De Palma, 40 anni, fotografo e musicista, segue per la rivista Rumore la musica dal vivo che passa per Torino.