Testo di Martina Palli | Fotografie di Dania Marzo
Un viaggio in compagnia di due giovani viaggiatrici, Martina e Dania, alla scoperta di una Bosnia “ferita” e tuttavia viva, incastonata nelle sue tradizioni ma aperta agli influssi delle sue mille genti, delle sue tante storie e dei tanti volti. Benvenuti a Est, fra Europa e Medio-oriente, con i ricordi di una guerra e lo sguardo rivolto al futuro. (M.T.)
In Bosnia la prima città che incontriamo è Trebinje. Oggi nella piazza del mercato si tiene la stagionale fiera del miele. Il centro cittadino brulica di stand di apicoltori provenienti dalle vallate circostanti, oltre al miele e ai suoi derivati si possono trovare anche tutti gli strumenti necessari alla cura delle arnie. L’atmosfera che si respira è rilassante, la gente per strada ci sorride dandoci prova della proverbiale ospitalità bosniaca. Più in là, una vecchina vende deliziosi accessori di lana grezza fatti a mano; la comunicazione verbale non è delle migliori ma ci lasciamo comunque convincere ad acquistare cappelli e calze prevedendo chissà quale ondata di freddo polare.
Tappa successiva Stolac. Decidiamo per una sosta al Monastero ortodosso di Tvrdos, una piccola deviazione senz’altro da consigliare. Dopo aver adeguato il nostro abbigliamento alla sacralità del luogo (all’entrata ci sono indumenti d’occasione ad uso delle visitatrici non troppo coperte), entriamo nella chiesa. All’interno l’oscurità è attenuata soltanto dalle pance brillanti dei mille turiboli in ottone appesi all’iconostasi e dai fendenti di luce che dalle finestrelle si riflettono obliqui sul chiaro pavimento marmoreo. Una volta dentro scopriamo tristemente che l’orario di visita coincide con quello delle pulizie settimanali. Svegliate dal rumore del motore dell’aspirapolvere, veniamo bruscamente riportate alla realtà e il momento mistico va a farsi benedire. Scopriamo, inoltre, che questo non è soltanto un luogo di culto. Intorno al monastero infatti ci sono vigne a perdita d’occhio: «Il nostro vino è il migliore della zona, vengono qui da tutta la regione per comprarlo» ci assicura un monaco. La sua prova? Due belle guance rubiconde.
Riprendiamo il viaggio. Sulla strada leggiamo numerosi cartelli che indicano vendite dirette di prodotti agricoli. Tra le altre, veniamo attirate da una gigante scritta rossa in campo bianco “MED”: ci allarmiamo, pensiamo a non so quale presidio medico per far fronte all’isolamento di queste zone. Ma ci sbagliamo: Med significa miele e tutti quei cartelli indicano la presenza di autoctone nonne, madri, zie e sorelle scese a vendere il prezioso oro prodotto dalle api della valle. E così, all’ennesimo cartello pseudosanitario, scendiamo dalla macchina e, prima ancora di poter aprir bocca, ci ritroviamo in mano due bicchierini stracolmi di liquore al miele, un bucastomaci prodotto in casa che ci mette k.o. Dipenderà dal fatto che non sono abituata ma a me sembra fortissimo e sento già la testa pesante. La contadina che ce lo ha servito ci tranquillizza spiegandoci che questo idromele bosniaco non solo non ha effetti indesiderati ma che anzi è raccomandato per gli sportivi, soprattutto italiani (chissà cosa avrà voluto dire?!?). Il tempo di scambiare qualche altra battuta, o meglio, gesto con la donna e saltiamo di nuovo in macchina, cariche di barattoli di miele sperando che la stradale, insospettita dalla nostra euforia, non ci fermi.
Dopo pochi chilometri raggiungiamo Stolac. Entriamo in un bar per prendere da bere (stavolta dell’acqua) e il gestore, un ragazzo sui quindici anni, riconosciuto il nostro accento italiano, ci racconta orgoglioso la sua passione per il calcio nostrano e soprattutto per la Juve di Signori (?). Ci spostiamo nella parte vecchia della città. Vecchia per modo di dire: qui come altrove, dopo la distruzione portata dalla guerra, le città hanno smesso di avere un’età, hanno smesso di crescere e sono tornate piccole. A Stolac, per esempio, tutte le moschee, dopo essere state bombardate con una violenza inaudita, vennero letteralmente smembrate e le pietre gettate ad una ad una nel fiume per impedirne la ricostruzione. Seguendo la scia degli edifici fantasma capitiamo davanti a una casa abbandonata; sul davanti è ancora visibile una pergola, cresciuta selvaggiamente negli anni, all’ombra della quale probabilmente erano soliti ritrovarsi i condomini per mangiare in compagnia o semplicemente per chiacchierare. Mentre osserviamo attonite le tracce indelebili degli spari sul volto ormai spento delle case, un vecchio si avvicina a noi. È così che facciamo la conoscenza di Zijo, ottantaduenne abitante di Stolac con tante storie da raccontare e tanta voglia di viverne ancora. Con i suoi vivaci occhi azzurri e la sua forza straordinaria, cattura immediatamente l’attenzione del nostro obiettivo. Le sue mani, grandi e stanche, illustrano con rapidi movimenti le affascinanti storie di ieri ma i ricordi più duri, quelli che si è cercato di dimenticare ma che il tempo avido ha trattenuto, hanno lasciato il segno nelle grinze del volto. Per il resto Zijo è rimasto poco più che un adolescente, si muove con passo svelto mentre, per giustificare la sua sorprendente conoscenza dell’italiano, ci racconta del tempo in cui aveva lavorato per il generale dei bersaglieri Attilio che passava da quelle parti col suo battaglione. Tra una piroetta e un salto, il nostro amico si improvvisa ballerino arrischiandosi per giunta in alcune prodezze atletiche (riesce persino a toccarsi la punta del piede con la mano, chi di noi potrà dire lo stesso alla sua età?). Ci parla del suo popolo, del fatto che in fondo italiani e bosniaci sono molto più simili di quel che si pensi. A parlare con lui non ci si stanca e, dopo averci regalato fichi freschi e uva fragola e aver sciorinato una personalissima hit parade di canzonette d’altri tempi, ci racconta ancora della sua giovinezza, di quando perse la testa per una triestina di nome Elena, la donna più bella che avesse mai visto. Zijo si offre, inoltre, di accompagnarci alla “Casa Sacra” (la moschea); camminando passiamo davanti ad alcune lapidi di marmo scuro: sono le tombe di quattro soldati croati. Uno di essi, ci racconta Zijo, ha ucciso a sangue freddo una donna solo perché non era sposata. Mentre la racconta è come se rivivesse quell’orribile scena, si ferma un attimo, si porta l’indice alla tempia destra e indicando con lo sguardo quelle tombe, dice: «Scemo di guerra». Il suono di queste parole stride nell’aria, vorremmo che fossero decisamente altre le espressioni italiane famose nel mondo.
Il giorno dopo siamo a Mostar. Neanche a farlo apposta riusciamo ad assistere al celebre tuffo dal ponte vecchio. Un’usanza assai longeva vuole infatti che i maschi della città si tuffino dalla straordinaria altezza dello Stari Most (24 metri) come segno di virilità. Oggi la tradizione è tenuta in vita da uno sparuto gruppo di atleti che ne ha fatto un vero e proprio mestiere o, per meglio dire, un’attrazione turistica: questi uomini, infatti, si esibiscono per i turisti dietro adeguato compenso. Ci fermiamo a chiacchierare con la ragazza del banco dei souvenir e scopriamo che è la moglie di uno dei tuffatori. Mentre ci spiega come sono nati i tuffi, ci dice che siamo state fortunate a vederne uno, non sempre infatti viene raggiunta la quota minima per il salto (25-30 euro). Entriamo con lei nella sede del Club dei Tuffatori, accanto ai numerosi trofei, appese alle pareti ci sono foto che ritraggono uomini in caduta libera verso le acque gelide della Neretva. Si vedono molti tuffi di testa, la moglie però ci tiene a precisare che non ci si tuffa più così: «È troppo pericoloso – dice – sapete, adesso abbiamo una bambina piccola».
Arriviamo a Sarajevo la prima sera di Bajram, tutta la città è in piazza a festeggiare la fine del periodo di digiuno (Ramadan); le auto sono imbottigliate e dalle case provengono musiche a tutto volume che sovrastano il brusio di clacson e voci della strada. Passeggiamo nel rione della Baščaršija, cuore pulsante della moderna Sarajevo, pieno di botteghe artigiane specializzate nella produzione di tappeti, borse e incantevoli utensili in rame per il caffè alla bosniaca. Il giorno dopo decidiamo di visitare la moschea dell’Imperatore, una delle più antiche della città, inaugurata nel 1566. Entrare in questo meraviglioso scrigno verde è come viaggiare indietro nel tempo: la quiete dell’ambiente concilia la visita al piccolo cimitero sul retro del tempio dove, tra i turbanti anneriti dal muschio (i sepolcri islamici hanno questa forma), si sente solo il gorgoglio della fontana in lontananza. Facciamo la conoscenza di Ahmed Hafiz, uomo sulla trentina che sembra conoscere alla perfezione la dottrina musulmana. Scopriamo poi che tanta dimestichezza e disinvoltura in quell’ambiente così solenne gli derivano da un’appartenenza molto più che spirituale al luogo sacro. Davanti a noi c’è infatti l’Imam di questa bellissima moschea che, dopo averci mostrato il complesso rito del lavaggio di mani, bocca, viso, collo e piedi da compiersi prima di ogni ingresso in moschea (cinque volte al giorno), ci invita a seguirlo all’interno del tempio. È emozionante ascoltare la nenia prodotta dalla preghiera intonata da Ahmed; al nostro orecchio straniero, questi suoni così lontani non risultano però incomprensibili anzi, le sue parole ci sembrano le uniche adatte a questo misterioso dialogo con Dio. La melodia del canto che si innalza nell’aria polverosa del tempio ci ipnotizza, dentro di me invento storie magnifiche perdendomi negli infiniti girali vegetali delle pareti. La generosità di Ahmed non finisce qui, l’accesso per noi è garantito anche alla preghiera collettiva ma il nostro posto stavolta non è al fianco di Ahmed bensì vicino all’ingresso, in una zona riservata alle donne. Il secondo rito, non meno affascinante del precedente, ci appare però più caotico: qualcuno arriva in ritardo, qualcun altro se ne va prima della fine, riusciamo comunque a distinguerne le diverse fasi. A preghiera finita usciamo insieme agli altri fedeli che si disperdono veloci nel buio della strada. Salutiamo anche Ahmed che, carta e penna alla mano, ci lascia il suo numero di telefono «Chiamatemi, vi porto a conoscere Sarajevo by night!». Inaspettatamente, abbandonato l’abito solenne e austero del capo della comunità, Ahmed torna a essere un ragazzo come tanti altri alle prese con due ragazze.
Tornando verso casa siamo colpite dall’insegna di un ristorante con il ritratto di Shakespeare, si tratta del “To be or not to be”. Durante l’ultimo conflitto, il proprietario ha deciso di eliminare le parole “or not” dalla targa volendo, così, scongiurare ogni riferimento alla morte e, insieme, dimenticare le sofferenze della guerra. Oggi fuori dal locale si legge “To be, no questions”. Questo ci riporta alla mente l’immagine di un palazzo visto il giorno prima, per camuffare i segni dei proiettili i residenti hanno dipinto sul muro tante piccole stelle bianche: il colore della pace.
Testo di Martina Palli | Fotografie di Dania Marzo
Presentazione a cura di Marco Turini