di Paola Pedrini | Fotografie di Massimo Colvagi

Non sempre quando si viaggia in un contesto ambientale completamente differente a quello a cui siamo abituati il cosiddetto “shock culturale”, ovvero quello spaesamento tipico di chi si adatta a modi e paesaggi del tutto diversi, si riconcilia in un accettazione incondizionata della cultura “ospitante”.  Ci sono “distanze” che a volte è impossibile colmare, ma che si può certo arrivare a comprendere.  L’autrice di questo racconto cerca con un linguaggio semplice e diretto, ma con l’atteggiamento sempre teso alla scoperta, di comunicare al lettore l’inevitabile difficoltà di superare quelle barriere culturali che in alcune occasioni sembra impossibile varcare.  Paola Pedrini, giornalista e scrittrice ci descrive affascinata (e allo stesso tempo  “meravigliata”) la sua India in questo brano tratto appunto dalla sua ultima pubblicazione “La Mia India” (Polaris).  [M.T.]

 

Mi dirigo all’Alka Hotel ma il guidatore di risciò mi parcheggia con i bagagli all’ingresso dei vicoli che portano ai ghat perché troppo stretti per passare e si offre per andare a chiedere la disponibilità di una stanza. Aspetto tre quarti d’ora e ritorna dicendomi che non c’è posto. Vecchio trucco ma sono troppo stanca per discutere e mi lascio portare in una guest house di sua conoscenza, la Puja, situato dietro al Meer Ghat.

Le camere sono poco confortevoli e piuttosto sporche ma con suggestiva vista sul ghat, al quarto piano di un fatiscente palazzo. Contratto per 300 rupie a notte con breakfast e decido di restare due notti. La guest house, come tutte, ha una terrazza con ristorante all’ultimo piano, la vista è meravigliosa anche se il cielo è nuvoloso e regala un’atmosfera spettrale. La città è immersa in una nebbia che sembra evocare un girone dantesco. Nell’aria odore di bruciato e fumo di roghi.

Dalla terrazza che sovrasta la città vedo gruppi di scimmie dal sedere rosso in cerca di cibo, maschi, femmine e piccoli saltano agilissimi da un tetto all’altro, dispettose giocano con i sari stesi ad asciugare e bevono acqua dai secchi davanti alle porte. Le camere delle guest house hanno le finestre chiuse con grate di metallo per impedire alle scimmie di entrare e rubare tutto quello che trovano.

Sviluppata sulla riva occidentale del Gange, Varanasi è considerata la città santa per eccellenza dell’induismo ed è una delle più antiche ancora esistenti al mondo.

La città di Shiva è il cuore pulsante dell’universo hindu, conta oltre mille templi dove si celebrano puja e rituali. La gente viene a morire a Varanasi, viene a trascorrere gli ultimi tempi di questa vita perché morire qua è di buon auspicio e purificarsi nelle acque del Gange lava da ogni peccato.

La parte più animata e anche la più affascinante è sicuramente quella lungo i ghat, le ampie scalinate che scendono verso il fiume accolgono migliaia di pellegrini, tra riti magici ed eccessi, dove i rituali di vita e di morte si svolgono sotto gli occhi di tutti.

L’acqua della Grande Madre, come chiamano il fiume gli indiani, è settica, vale a dire del tutto priva di ossigeno disciolto e contiene 1,5 milioni di batteri fecali. E il problema si estende a tutti i 400 milioni di persone che vivono lungo le sue sponde. Gli indiani fanno il bagno nel Gange, lavano vestiti e stoviglie, i bambini giocano e sguazzano nelle sue acque ma l’importanza spirituale che rappresenta il fiume è al di sopra di tutte le altre cose, di tutte le malattie, dell’igiene e del buon senso.Dalla terrazza scatto qualche foto ai ghat che scendono nel fiume, scalinate che si immergono nell’acqua e che durante il periodo dei monsoni vengono completamente  sommerse.

Mangio omelette con cipolle, paratha con legumi, succo d’arancia e un tè al ginger; riprendo le forze, faccio una terribile doccia in un terribile bagno invaso da formiche giganti e scendo lungo il ghat più vicino al mio albergo. Un intricato labirinto, vicoli strettissimi, sporchi e dall’odore nauseante, sono disseminati di sterco di vacca, mosche e insetti che si appiccicano sul corpo e sui cibi esposti nelle numerose e minuscole bancarelle.

Finalmente spunto su una piazza, che di solito precede le scalinate, colta di sorpresa da un forte vento e alleggerita da tutti gli odori che credevo mi seguissero.

I ghat sono pieni di turisti occidentali ma anche coreani e giapponesi, ci sono turisti indiani e abitanti del posto, i sadhu con dred e lunghe barbe passeggiano nei loro abiti arancioni, gli altezzosi brahmini in tunica bianca impartiscono lezioni sulle cerimonie e leggono testi sacri, i bambini vendono cartoline e collane, gli yogi sono concentrati sulle asana e qualcuno si immerge nelle acque sacre della grande madre. Come un mosaico dove ogni cosa e persona trova il suo posto.

Questa zona della città è più pulita, tutti salutano chinando il capo ma nell’aria c’è uno strano odore di buonismo e facce con sorrisi tirati di occidentali invasati, fuggiti alla ricerca della loro identità che sperano di trovare appesa alle pareti di un ashram indiano.

Camminando arrivo al Manikarnika ghat, dove si svolgono i principali riti funebri e i cadaveri vengono cremati in pubblico.

Per gli Indù, la morte rappresenta una temporanea sospensione dell’attività fisica in cui l’anima riorganizza i suoi piani e si reincarna in un altro ciclo di vita (samsara); questo gli permette di superare contraddizioni, mancanze, imperfezioni, per poter finalmente realizzare la completezza e raggiungere lo stato di equanimità.

Solo quando il percorso sarà completato, lo spirito potrà ascendere al Nirvana, lo stato in cui si ottiene la liberazione dal dolore (duhkha), terminando così le reincarnazioni.

La morte dunque è il momento in cui l’anima con alcuni residui di coscienza lascia il corpo da un’apertura del cranio e si reca in un altro mondo, poi torna di nuovo in stati differenti a seconda di come si è comportata in vita e a seconda del suo samsara, ossia delle difficoltà e tendenze da superare. Esistono due mondi nell’Induismo: quello astrale dei fantasmi dove l’anima soggiorna temporaneamente prima di ricostruire il suo corpo e quello degli antenati dove l’anima può rimanere beata con le altre dei già divenuti antenati.

Gli Indù usano la cremazione in quanto permette ai cinque elementi che costituiscono l’anima di tornare alla loro fonte: aria, acqua, terra e fuoco al mondo terreno, l’etere al mondo superiore.

Il ghat delle cremazioni è in funzione 24 ore al giorno e aperto a tutti; non è possibile scattare foto ma è ben accetta un’offerta che servirà per l’acquisto della legna usata per ardere i corpi e aiutare così le famiglie troppo povere che non possono permettersela. La casta a cui appartiene la famiglia del defunto è immediatamente visibile dalla quantità di legna che arde sotto al corpo.

Alcuni sadhu e i bambini al di sotto dei tre anni vengono lasciati al fiume senza essere cremati e non sarà difficile incontrare i loro cadaveri che galleggiano a filo d’acqua durante una suggestiva gita in barca sul fiume.

Il progresso cresce come muschio nell’umidità, il denaro acquista un suo valore che prima aveva il baratto, i santoni chiedono di essere fotografati in cambio di qualche rupia, lampioni come allo stadio illuminano le scalinate principali dei ghat e negozi di finti oggetti religiosi si trovano ovunque, contraddizioni che rispecchiano il carattere dell’India dove tutto convive. Le tradizioni non spariscono, è il progresso che si unisce e impara a convivere con la più profonda spiritualità.

La morte, un pensiero che da sempre mi ossessiona, rompicapo di notti insonni, tra momenti di sterile quotidianità e visioni ad occhi aperti.

Accettare o lasciarsi sopraffare? Comprendere o temere? Adesso ho solo paura.

Non è semplice trovare ristoranti o bancarelle nei vicoli per poter mangiare e ogni guest house è quindi dotata di un proprio ristorante di solito situato sulla terrazza.

Mi ritiro un po’ stanca al mio alloggio e circondata da troppe voci occidentali infilo le cuffie dell’iPod e consumo una zuppa di noodle e verdure, paratha semplice e tè al limone.

La mattina mi sveglio presto con l’idea di fare un giro in barca lungo la riva del Gange ma il cielo è ancora coperto, cupo e il vento che soffia fortissimo alza nubi di sabbia che non danno tregua allo sguardo. La pioggia della notte ha trasformato tutto in fanghiglia e affondando le mie infradito raggiungo l’Assi ghat, particolarmente importante perché in questo punto il fiume Asi incontra il Gange, meta di pellegrini che vengono a venerare un lingam di Shiva sotto un Ficus religiosa.

Ricoperta di sabbia, sudata e con i capelli arruffati mi siedo su un muretto e bevo un chai caldo, chiacchiero con il venditore che mi offre un bidi e mi invita a vedere il suo shop di sete e tessuti poco distante da lì.

Una bambina mi ha seguito a distanza dalla riva del fiume, si avvicina: «Money money, madame». La invito a sedersi e le offro un chai e due pacchetti di patatine che mi dice porterà ai suoi fratelli. Da una borsina di plastica tira fuori un biscotto che mi offre da inzuppare nel tè.

Lungo i ghat la gente fa il bagno del mattino, si immergono completamente nel fiume, si insaponano accuratamente ogni parte del corpo, si fanno lo shampoo e si lavano i denti; le donne fanno il bucato e lunghe file di panni sono stese ad asciugare su fili sostenuti dal vento. Un ragazzo coreano si spoglia, la pelle bianca come il latte, esile e un po’ curvo su se stesso si immerge fino al volto nelle acque del Gange. Un fremito mi percorre il corpo, lo specchio del sole accecante mi tira a sé ma docilmente la forza della ragione assopisce quel barlume di follia.

Nelle piazze principali si confezionano ciotole di fiori da offrire agli dei che verranno poi lasciate al corso del fiume, si celebrano cerimonie di iniziazione hindu e alcuni uomini si fanno rasare la testa lasciando solo un ciuffo di capelli dietro la nuca.

Nel libro di Gavin Flood “L’Induismo” leggo che tra gli otto e i ventiquattro anni il maschio di casta alta si sottopone alla cerimonia dell’iniziazione vedica che dura circa un giorno. Uno schema comune prevede che la testa del ragazzo venga rasata, con l’eccezione di un ciuffo alla sommità del capo, che egli venga lavato e abbigliato con un perizoma, una fascia e una pelle d’antilope intorno alla spalla. Si fanno ablazioni al fuoco sacro, il ragazzo fa voto di castità e viene investito col cordoncino sacro, composto di tre fili singoli intrecciati tre volte, simbolo della condizione dei due volte nati.

Salgo le scalinate e arrivo sulla strada principale, cerco un moto risciò e per 40 rupie mi faccio portare in stazione per prenotare il biglietto per Satna. Da lì prenderò un taxi per raggiungere la città di Khajuraho, famosa per rappresentare una delle più belle espressioni dell’arte e dell’architettura dell’India medievale e per una serie di fregi e sculture di sapore erotico che decorano i templi in pietra.

La partenza del treno è prevista per domani alle 23.30 e l’arrivo la mattina alle 6.30, pago 2100 rupie e ritorno nel caos infernale fuori dalla stazione. Ritorno a piedi verso il mio hotel e mi perdo volutamente tra i vicoli stretti e puzzolenti chiedendo di tanto in tanto informazioni. Dopo circa un’ora e con l’aiuto di un bambino arrivo al Puja hotel. Mangio un piatto di biryani con verdure e mi concedo un’ora di massaggio ayuverdico in stanza per 400 rupie. Jorge, l’amico spagnolo, mi aveva lasciato il numero di telefono di un massaggiatore di Varanasi insistendo che dovevo assolutamente provarlo. Un ometto piccolo e minuto di nome Asok si presenta nella mia stanza con una borsa piena di oli, palline di plastica e mattarelli come quelli che usa mia nonna per tirare la pasta. Mi massaggia come se fossi pasta per la pizza con un’energia impensata e la sera, già stanca dalla giornata, accuso atroci dolori alla schiena. Nel pomeriggio mi dedico a piccoli accorgimenti estetici di cui noi donne ogni tanto necessitiamo. La mattina piove a dirotto ma non rinuncio alla prossima tappa in programma nella città di Sarnath, 10km a nord est da Varanasi, dove il Buddha venne a predicare il suo messaggio per la via che conduce al Nirvana dopo aver raggiunto l’illuminazione sotto un albero di ficus a Bodhgaya.

Sarnath è una delle quattro città più importanti del circuito buddista insieme a Bodhgaya, Kushinagar e Lumbini in Nepal. Per 400 rupie il moto risciò mi accompagna e aspetta che io finisca di visitare i diversi templi. Mentre entro ed esco da un tempio tibetano a uno giapponese, da un tempio cinese a uno buddista ritrovo un po’ di pace e di silenzio, niente clacson, automobili e folla di gente per le strade ma grandi parchi immersi nel verde, Buddha nella posizione del loto e coricati, monaci e novizi che recitano le preghiere del Dhammapada, testo sacro buddista, girando intorno allo stupa.

Fotografo un cane nero e pulcioso che dorme vicino a un tempio. Pico Iyer nel libro “La strada aperta” scrive che i cani che si aggirano nei luoghi sacri in una vita precedente erano monaci che non sono riusciti nel loro intento e probabilmente riproveranno nella vita successiva.

Li guardo, magri fino all’osso, rognosi, lacerati e sanguinanti in cerca di frescura tra le pietre dei templi e mi chiedo perché mi fa più pena un cane che sta morendo di fame anziché un uomo denutrito sdraiato a terra che chiede l’elemosina. E mi fa più impressione una vacca dal muso insanguinato a cui hanno appena tagliato un corno di alcuni mendicanti che all’esterno del tempio supplicano qualche rupia per custodire le scarpe.

Mi sento in colpa, cattiva, rabbiosa con me stessa, frastornata da tutta questa spiritualità piango e piango e piango lasciando che le lacrime solchino il mio viso per sempre. Riuscirò mai a pregare? A credere in qualcosa e lasciare che questo qualcosa mi salvi? Mi fermo lungo la strada e mangio un masala dosa per mezzo euro. Moglie e marito cucinano per me che sono l’unica cliente mentre arrivano i loro tre figli da scuola tutti in divisa blu. Un topolino passa frettoloso sotto al mio tavolo. In un’altra bancarella gestita da due donne bevo un chai cercando di fare due chiacchiere, io in italiano e loro in hindi, ci capiamo poco ma con tanti sorrisi. Lungo la strada mi fermo in un internet point e chiamo i miei genitori in Italia, sentire la voce di mio padre mi commuove un po’ e gli dico che mi manca. Nel primo pomeriggio rientro a Varanasi e tra gli stretti vicoli faccio qualche acquisto: bangles colorati e tintinnanti, un orecchino per il naso e un braccialetto per la caviglia, il tutto per qualche rupia.

Ci sono diversi ragazzi occidentali che acquistano cartoni pieni di magliette, sciarpe e collanine, merce che mi dicono rivenderanno nel loro paese ai negozi e ai mercati. Noto anche molta polizia, soprattutto presso l’ingresso dei templi e mi chiedo se sia per gli attentati di Delhi degli scorsi giorni. Ritorno sulla terrazza del Puja con piedi e gambe sporchi di fango, leggo, scrivo e mi rilasso aspettando il risciò che mi porterà in stazione. In uno degli ultimi ghat si sta svolgendo probabilmente una cerimonia e il Gange si riempie di piccoli lumini che il vento trasporta lungo il fiume.

Penso a certi discorsi fatti con amici italiani sulla possibilità di trasferirsi in un altro paese, un paese più consono alla propria personalità dove ci si riconosce sempre più che nel proprio. Le radici sono forti ma la sensazione è quella che manchi sempre qualcosa o forse manca qualcosa dentro di noi. Esiste il luogo ideale? Ho sempre pensato di andarmene dall’Italia, paese che non mi appartiene ma io appartengo a lui. È difficile staccarsi ma è ancora più difficile trovare dove andare, forse perché non si può decidere, forse perché quando giungerà quel momento sarà il luogo a farsi riconoscere e a farsi appartenere.

Credo che Geoff Dyer in “Amore a Venezia, morte a Varanasi” descriva perfettamente il concetto di appartenenza a un luogo e di conseguente profonda trasformazione verso di esso.

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Alla reception dell’albergo aspetto il guidatore di tuk tuk che oggi mi ha accompagnata a Sarnath e sarebbe dovuto venire a riprendermi alle 21.30 per accompagnarmi in stazione. Aspetto fino alle 22 dopodiché decido di incamminarmi tra i vicoli verso la strada principale. Non passo certamente inosservata ma arrivo sana e salva, trovo il passaggio e mentre andiamo alla stazione di Varanasi ci ritroviamo nel bel mezzo di una festa in onore di un dio, uno dei tanti del carosello hindu, di cui non ricordo il nome.

Sembra una parata di carnevale, sfilano carri con l’immagine venerata, la musica a tutto volume e la gente, visi colorati da polveri e argille, balla come fosse posseduta. Secondo le religioni praticate in India alcool e droghe non dovrebbero essere ammesse ma di fatto sia uomini che donne fumano marijuana, oppio e masticano continuamente un impasto di tabacco, calce e betel dagli effetti inebrianti. Quando parlano con in bocca qual pastone sono incomprensibili oltre che disgustosi da guardare.

Un amico, trasferitosi da poco in India e che frequenta manager nel commercio del pellame, mi ha confidato che spesso gli uomini bevono in privato o alle riunioni negli appartamenti prima di andare a cena poiché nella maggioranza dei ristoranti non sono serviti alcolici.

La stazione di Varanasi dovrebbe essere più tranquilla rispetto a quella di Delhi ma quando arrivo mi trovo davanti a una distesa di corpi accovacciati ovunque. Sembrano morti. È impressionante, come fucilati caduti e lasciati alla terra, accatastati uno sopra all’altro, scavalcati dalle mucche che indisturbate si muovono senza svegliare nessuno.

Sono impietrita, con la pelle d’oca mi siedo su un muretto e osservo incredula. Ma dopo pochi minuti sono già diventata io qualcosa da osservare e una decina di ragazzi sono in piedi di fronte a me scrutandomi insistentemente e scambiandosi ogni tanto qualche commento e qualche risolino. Mi sto un po’ innervosendo e vorrei urlargli con tutta la voce che ho che cosa hanno da guardare, vorrei scappare via e nascondermi; ma poi ripenso a quello che Jorge, lo spagnolo, mi ha detto in treno, sulla reputazione delle donne occidentali in India, pessima se si pensa che il solo fatto di avere le spalle scoperte è considerato oltraggioso. E allora mi rassegno, mi stringo al petto lo zaino, trattengo a stento le lacrime e rimango sospesa in balia degli eventi.

Abbasso lo sguardo e fingo di leggere. Penso che quello che sto vedendo mi sembra fuori dal mondo mentre per loro quella fuori dal mondo sono io.

Il treno questa volta è puntuale. Prima di salire percorro il binario avanti e indietro almeno quattro volte alla ricerca del mio vagone chiedendo informazioni e avendo risposte sempre diverse. Quando riesco a salire e butto un occhio al mio posto letto rimpiango di non aver preso un taxi. Sporco, odore di fogna ovunque e le lenzuola in dotazione macchiate di segni marroni. Ho una crisi di nervi, l’aria condizionata è fortissima e mi copro con più vestiti possibili prima di sdraiarmi e cercare di pensare a un fiore di loto che non si lascia sporcare dal fango in cui cresce, per poi addormentarmi.

 

Testo di Paola Pedrini | Fotografie di Massimo Colvagi | Presentazione a cura di Marco Turini Acquista il libro. Clicca sulla copertina!

“L’India è come un pungo nello stomaco. In India il tempo scompare e sfumano orari, programmi, appuntamenti. In India si devono tenere aperte le porte, le strade e la mente. In India si impara ad avere pazienza,  a fare le code, ad aspettare. L’India puzza di piscio e di merda e profuma di cibo, di fiori di incenso. L’India è religione, riti e celebrazioni. L’India è morte. L’India è sole, acqua e feste. L’India ti avvolge nei suoi sari colorai come farfalle e ti accompagna per le strade a vedere la gente che muore di fame. In India una vacca vale più di un uomo ma un bambino vale più di una vacca. Tutto ciò che succede è vero, ma è vero anche il suo contrario” – Paola Pedrini.