testo e foto di Sandro Abruzzese
Ci sono luoghi dotati di un orizzonte talmente vasto che, nel tentativo di scoprirne il limite, si finisce per guardarli con tutto il corpo e sorprendersi nudi a vicenda: la terra e il corpo, nel tentativo di riconoscersi, si spogliano l’una con l’altro. Questo mi capita quando prendo le strade rivolte verso quello che Gianni Celati definisce il limite estremo della pianura. Credo che questa sensazione sia dovuta principalmente al vuoto, allo spazio sconfinato che, uscendo dalla città, si apre davanti ai nostri occhi ad est. Ho ritrovato sensazioni simili ne L’airone di Bassani, quando, nel descrivere le sensazioni di Edgardo Limentani, scrive “Soltanto dopo Codigoro, dopo Pomposa, quando nella luce incerta del crepuscolo avesse veduto delinearsi il paesaggio di terre basse, deserte, intrevallate da estensioni di acque in apparenza stagnanti, epuure vive, in realtà, congiunte come erano al mare aperto, soltanto allora gli aperava che avrebbe cominciato a sentirsi a suo agio, a respirare”.
Verso il Delta del Po, a Gorino, Scardovari, Pila, o nelle Valli di Comacchio, ho come l’impressione che qualcosa dentro di me si plachi. Forse non è che il riflesso di ciò che vedo. È la terra che si placa, verso la foce. Conclude la sua storia nell’Adriatico così come si placano le vene aperte del Grande Fiume. Allora, accade semplicemente che nel girare trovi conforto, svaniscano le preoccupazioni quotidiane, ritrovi lo stupore e la meraviglia, mentre all’orizzonte si congiungono, – immensi, – cielo, terra e mare. Tre corpi che incombono mai uguali a se stessi. Che possono essere lividi e minacciosi, oppure calmi, tiepidi, accoglienti.
Sono in auto, sempre solo. Attraverso luoghi che, negli anni, hanno perso la loro conformazione, il loro nome. Il paesaggio circostante è pieno di esseri viventi, di alberi, piante, insetti, a cui non so dare un nome. Riconosco aironi, rondoni, alberi di pere e mele, pioppi, querce, grano, mais, ma il resto testimonia una distanza assurda. Un acquitrino, una valle palustre sono state soppiantate da coltivi o risaie che abbiamo finito col chiamare indistintamente Valli di Comacchio. Più di trent’anni fa Celati si aggirava per queste vie con una carta militare e constatava arreso che si trattava di “Nomi scomparsi assieme a tutto il resto che non conosco, e che immagino con le parole”. Trovava necessarie le parole “Anche le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che che possiamo fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti (…)”.