Testo e foto di Carolina de Stefano.
A Mosca, per il russo, ci sono stata due volte: un mese in autunno, quasi tre in primavera.
L’istituto di lingua è a cinque minuti da Tverskaya Ulitsa, la strada principale della città, oltre che un viale proporzionato nella sua immensità al suo scopo: essere l’estuario monumentale che porta alle mura del Cremlino e trasformarsi in tappeto cementato di parate militari sempre identiche e solenni. Nonostante la mia scuola si trovasse in pieno centro, però, tutto all’inizio mi si è presentato di un periferico grigiore. Troppo grande il cortile del palazzo, fatiscente il breve percorso dalla stazione metro Belorusskaya fino a lì. Troppo enormi, soprattutto, le distanze e le dimensioni delle strade, per riuscire ad associare quella zona alla parte per tradizione più calda e accogliente di ogni città.
Al mio ritorno avrei scoperto due cose. La prima è che ci sono parchi, portoni, quartieri molto più poetici e ospitali di Tverskaya Ulitsa. Penso a Chistie Prudi, gli “Stagni puliti” circondati da tutti quegli alberi e case basse di colori pastello e ristoranti, e ai viali attorno a Màlaja Bronnaia, i miei preferiti. La seconda è che in Russia si viene assorbiti, assuefatti da una malinconia che inebria, e ottunde. Con il risultato che ho iniziato a vivere l’enormità degli spazi che all’inizio mi intimorivano – e l’assurdità notoria della numerazione dei palazzi comunisti – in maniera indolente. Sebbene con un sottofondo impercettibile ma costante di disagio sopito, ho anzi imparato a dipendere visceralmente da questa forma indefinibile, atemporale, erosiva di alienazione spaziale. Tanto intima da essere la causa più opprimente della nostalgia per la Russia che provo anche ora, e che mi fa sentire pronta a rinunciare ad altro pur di tornarci.
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L’appartamento
A marzo ho abitato in un appartamento, trovato su un annuncio di una rivista, che ha corrisposto in tutto alle mie aspettative di sovietico romanticismo. Era alla fine di Smolenskij Bulvar, tra Gorki Park e il Ministero degli Affari Esteri, in un palazzo staliniano di diciannove piani. I portoni di questa struttura mastodontica erano tre, ognuno con un suo vialetto arrugginito d’accesso e un suo assurdo, stanco, complicatissimo citofono d’epoca a codici. L’androne era ampio e vuoto, rivestito anche sui muri di mattonelle rettangolari bianche e verdi. Da un lato la casella delle lettere risalente agli anni ’30 ostentava sciatteria: consunta, spalancata, con la posta degli inquilini a vista. Dall’altra parte, in un angolo, c’erano un divano di vecchio velluto a fiori, una palma finta e annoiata fuori contesto, una libreria polverosa stracolma. La libreria, il divano, mi hanno confermato quello che già avevo notato a settembre: i russi leggono molto, e sono del tutto assuefatti all’attesa. Essendo lettori abituali, e sapendo che per una qualche ragione – di cui in ogni caso non sono interessati a scoprire le cause – ci sarà da aspettare…perché non sedersi in un androne identico a tutti gli altri a leggere un libro fino a che chi ci ha invitato forse torni a casa, o qualcuno ci dia il codice per riuscire quantomeno a citofonare, che la portiera che dorme nella guardiola si svegli, o che quando è sveglia finisca di fumare la sigaretta con la cognata prima di darci un’informazione?
Come spesso accade in Russia, una volta individuato con difficoltà palazzo e portone, scoperto il codice del citofono e scontato un’attesa immotivata, si sale in un ascensore che è un montacarichi poco rassicurante. I corridoi intervallati da porte a vetri si ripetono identici come gli ingressi degli appartamenti. Tutto si assomiglia, ed è difficile che le case russe siano grandi. La mia era uguale alle altre, infatti, e grande non lo era minimamente: le stanze erano due, e in una delle due avrebbero continuato a stare i padroni di casa, marito e moglie. Mi dovevo lavare le mani nella vasca perché non c’era il lavandino; per riuscire ad aprire una porta bisognava sempre chiuderne prima un’altra. Nel tepore tradizionale e disordinato di questo piccolo posto, però, io sono stata bene dal primo istante. Mi riscaldava l’odore delle stoffe un po’ invecchiate; la mia finestra era grande, luminosa; la vista dal nono piano bellissima. Mi sono sentita a casa ogni volta che ho cucinato con le pentole di ceramica rossa che erano appese e accatastate al muro, e mi dava piacere aspettare che il tè si raffreddasse nelle tazze di betulla.
Tè russo
Il russo che ho conosciuto più da vicino è stato il mio proprietario di casa, Misha. Parlo di un tipico uomo russo che quattro anni fa ha fatto una scelta atipica: sposare in secondo matrimonio un’attrice e cantante tedesca di origini armene. Helen, con il suo ecologismo bavarese, la sua intelligenza estroversa e poliglotta, il suo sogno di fare un film che ricostruisse la storia della persecuzione della sua famiglia di Erevan, stemperava e teneva testa al temperamento di lui. Ma i tratti fondamentali del carattere e dei ritmi quotidiani di Misha sono rimasti, li ho potuti osservare e ritrovare poi in molte altre persone.
La prima cosa che mi ha colpito di lui, e poi dei russi in generale, è una ruvidità d’impatto, e una diffidenza istintiva, che si fondono quasi sempre con un lato di infantile ingenuità predominante in momenti di vodka, di inaspettata commozione, di nostalgia. Gran parte dei loro modi rudi credo dipenda dall’ossessione del volersi mostrare sempre imperturbabili e forti, cosa che non deve essere mai messa in dubbio, tanto meno da uno straniero. Sono molto orgogliosi. Misha non mi avrebbe voluto a vivere con loro. Anche sua mamma, la babuska presente in ogni famiglia russa, era contraria: suo figlio non aveva bisogno di fare l’elemosina. Era stata Helen ad insistere per arrotondare lo stipendio un paio di mesi. Suo marito avrebbe poi magari trovato interessante conoscere qualcuno di non russo oltre a lei. Comunque sia, all’inizio lui mi ha accolta con freddezza. Non lo convincevo. Che ci facevo lì da sola, a Mosca? era possibile che l’unico motivo fosse studiare il russo? Cos’era quel sorriso stampato in faccia, ammirato, ogni volta che tirava fuori dal frigorifero il kefir, la loro ricotta acida?
Ad un certo punto, però, ha iniziato a fidarsi di me. Ed è così che nei miei confronti alternava orgoglio severo con un impaccio delicato, dolce. Quando aveva un ospite mi ignorava del tutto. Seduto con un suo amico in una cucina di pochi metri quadrati, riusciva senza cedimenti a non voltarsi durante tutto il tempo in cui mi preparavo la cena. Mi riservava un vago saluto silenzioso con la testa, e ai suoi ospiti non mi presentava. Faceva vedere così che ero là perché l’aveva voluto Helen, che lui quasi non sapeva chi fossi. Non dovevo costituire un argomento di conversazione né un motivo di folkloristico interesse: ero una donna, e un’affittuaria straniera.
Più era tardi ed eravamo soli, invece, più si trasformava. Mi inteneriva che un uomo con così tanta forza fisica, che alle undici di sera faceva jogging al parco, e dopo una giornata di lavoro andava fuori Mosca per vedere sua figlia senza apparire mai stanco, pensasse a bollire per il tè molta più acqua del necessario. Non mi avrebbe mai chiesto direttamente se volevo sedermi con lui. Ma lasciando nel pentolino del tè bollente in più, aspettava senza dire nulla che io passassi in cucina e me ne versassi una tazza. Nella stessa stanza in cui la sera prima mi aveva ignorata, ora mi guardava di sfuggita, burbero perché intimidito: sperava che mi sedessi come per caso, senza ringraziarlo del suo gesto. È così che fino alle due, le tre del mattino, parlavamo a tavola nonostante il mio russo stentato, e ascoltavamo musica. Non c’era nulla di ambiguo, né un minimo segno di attrazione fisica nei miei confronti o di non rispetto per Helen. Era semplicemente curiosissimo di sapere com’era l’Italia, da quali fossero i nomi più comuni a cosa mangiavamo. Sorrideva. In generale, in Russia siamo ricollegati a un’immagine di calore, di spensieratezza, di simpatia; ed anche la sua ammirazione per il nostro paese era autentica.
Nonostante questo, vedevo che i suoi occhi erano anche pieni di conoscenze indirette, di aneddotica costruita e filtrata per decenni dal comunismo. Tra di noi c’erano ancora i settant’anni in cui oltrecortina passavano legalmente a malapena membri italiani del PCI e qualche concerto dei Nomadi. Le domande e il modo in cui me le poneva lo facevano apparire teneramente ingenuo, più aperto, mio amico, ma lontanissimo. Sentivo, distintamente, che anche nei momenti di confidenza lui rimaneva immerso in quelli stessi secoli mongoli, russi e sovietici di chiusura delle frontiere, di Oriente, di spazi infiniti che mi spaventano e mi hanno rapita. Che determinano questa mia tensione istintiva e intimorita nel provare a renderne nitidi i confini.
Librerie
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Nelle librerie di Mosca mi hanno colpito due cose. La prima, appagante per i miei occhi romantici, è aver visto interi reparti dedicati a spartiti di musica classica, e soprattutto scoprire che i loro clienti abituali sono bambini. Con i loro zainetti dopo la scuola, un flauto tra le mani o un violino sulle spalle, non c’è stato un pomeriggio in cui non abbia trovato tra i testi pentagrammati almeno uno o due alunni delle elementari, concentrati a scegliere una certa edizione solo dopo una consultazione ragionata. È così bello che tutti i bambini russi sappiano suonare uno strumento, e che crescano con questa sensibilità musicale. È bello anche che per questa ragione – e lo dico con tutta la mia ignoranza – gli adulti conoscano le arie di Wagner, le melodie popolari, e senza parlare l’italiano riproducano ad orecchio i libretti delle opere di Verdi.
La seconda cosa che nota in particolare un’italiana, visto che questa tradizione da noi manca comunque più che in Francia o nel Regno Unito, è l’importanza data alle biografie. Di tutti i cinque piani del negozio “Moscvà” vicino alla Piazza Rossa, ad esempio, già all’entrata del primo piano si trovano interi scaffali dedicati alle vite dei più importanti scrittori, scienziati, militari, astronauti russi. Molti le comprano, ma tutti già le conoscono: oltre ad averle imparate in un’unica versione standardizzata inculcata o tramandata, infatti, i quotidiani le presentano ancora come avvincente argomento di attualità. Spesso le ricorrenze sono forzate, martellanti, insolite. Ad esempio l’articolo di fondo dedicato al giorno in cui Bulgakov, settant’anni prima a casa sua, aveva finito di scrivere il Maestro e Margherita. Un pezzo che si aggiungeva nel giro di due mesi a lunghe colonne dedicate allo scrittore per l’anniversario della sua morte, il 10 marzo, e per il giorno della sua nascita, il 15 maggio. E così per Dostoevskij, Lomonosov, Gagarin, Puskin più di ogni altro.
Esorcizzare il reale
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Nella metropolitana di Mosca, posto in cui scorre la maggior parte della giornata di ognuno, chi ascolta musica guarda un punto fisso, chi legge non smette mai di leggere né per scendere dal vagone, né tantomeno per far passare più agilmente qualcuno. Tutti hanno un libro, alcuni compongono musica e quasi nessuno sfoglia in pubblico i giornali. Ora, l’appassionarsi ad una trama di un romanzo, l’apatia politica e l’ostentato disinteresse per tutto ciò che li circonda sintetizzano alcuni loro tratti tipici: oltre all’orgoglio, i russi sono pervasi da romanticismo nostalgico, e allo stesso tempo da un’indifferenza cinica tanto inflessibile da annichilire e disarmare anche l’occidentale più bendisposto.
Senza finalità giustificatrici o presunzioni di verità, penso che cinismo e romanticismo siano tra i modi trovati dai russi per riuscire a sopravvivere alla quotidianità tuttora impietosa, e all’epoca del comunismo. Le storie d’amore melense da libri rosa che hanno in testa anche le russe più emancipate, laureate, lavoratrici, sono fatte di un’esteriorità di gesti, di fiori, di frasi da film, che stonano con i mariti ubriachi da cui divorziano già a vent’anni; ma anche con lo squallore di certe città della Siberia, e con la loro stessa freddezza e forza fisica nell’affrontare le fatiche. Il tipico “nie snaiu”, il “non so” dei russi che rispondono così a chiunque non conoscano, è un retaggio dell’Unione Sovietica: il risultato perverso di un sistema fondato sul terrore della delazione. In queste loro due parole meccaniche c’è il pensare che sia sempre meglio farsi i fatti propri, la nausea anestetizzata per l’ideologia totalitaria del bene comune, una visione del potere come sporco ma inevitabile. Quello che ne resta oggi, tra le altre cose, è un’alzata di sopracciglio come unico commento a tragedie, l’indolenza, la nota viscosità paralizzante della burocrazia, l’inefficienza sciatta e assoluta dei servizi. In un negozio di scarpe in pieno centro ho chiesto al commesso di mostrarmene un paio che avevo visto in vetrina. Dopo venti minuti che lo aspettavo è tornato per comunicarmi, con tono di ovvietà laconica, che del mio numero avevano solo la scarpa destra: l’altra cosa che si impara in Russia è l’inutilità di chiedere “perché”.
Questa irrazionalità faticosa e lontana consuma lentamente tutti gli occidentali che vivono per anni in Russia, li spegne, li soffoca, li anestetizza. Credo succederebbe anche a me, ne ho intuito l’inevitabilità. Ho anche intravisto, però, prima di tornare in Italia, un ultimo accesso idealizzato e romantico a questo loro mondo anacronistico e inefficiente. Ho scoperto che ogni notte, di fronte alla casa-museo di Bulgakov sulla Sadòvaja, c’è un pulmino gratuito che parte all’una rientrando alle sei del mattino. Attraversa la città assopita cinque ore – un tempo infinito – per toccare tutti i luoghi della vita e dei personaggi dello scrittore. L’orgogliosa presunzione con cui alla biglietteria mi hanno risposto che sì, avevo capito bene, quel pulmino sgangherato parte tutti i giorni dell’anno anche con una sola persona a bordo, ha un che di ridicolo, di folle. Allo stesso tempo, questo mezzo sovietico che gira per Mosca durante notti ghiacciate, che ripercorre instancabile e ripetitivo il suo lungo tracciato letterario, potrebbe essere uno degli oggetti surreali, leggeri, sospesi sopra i villaggi sofferenti di Chagall.
Carolina de Stefano @caroldeste