Testo e foto di Francesco Parrella

La pioggia accompagna il viaggio da Mandalay a Yangon. Poco più di seicento chilometri da percorrere in dieci ore a bordo di un bus Tata degli anni ’60. Sul sedile i passeggeri trovano un poggiatesta ricamato a mano e un plaid: nei bus del Myanmar l’aria condizionata è sempre alta. A bordo, salendo dalla porta anteriore si notano sul largo cruscotto dei santini con divinità buddiste e fiori. Fiori freschi immersi nell’acqua contenuta in alcuni barattoli di vetro. A ben guardare ce ne sono anche all’esterno, accanto ai fanali: un mazzo per ogni lato che donano al mezzo un’atmosfera festosa. E’ un viaggio lento su una strada sempre dritta. La prima ora a bordo è scandita dalle litanie e dai canti di un monaco buddista che appare dai due televisori accessi all’interno dell’abitacolo. Il volume è alto. Una signora sulla sessantina ad un certo punto si alza e si avvicina ai due autisti: “Dobbiamo riposare”, dice. Qualche minuto dopo i due monitor vengono spenti. Il monaco farà la ricomparsa sugli schermi mezz’ora prima dell’arrivo. 


E’ sera tarda quando il bus entra a Yangon. La pioggia si fa più insistente. D’altronde siamo nel mese di settembre e il monsone ancora non ha perso la sua forza, che si fa più sentire man mano che ci si avvicina al Mar delle Andamane dove si genera. La stazione degli autobus è alle porte della città. Ad attendere i passeggeri un nutrito gruppo di tassisti con cui contrattare la tariffa per il centro. Dopo alcune centinaia di metri il taxi resta imbottigliato nel traffico. Ci vorrà un’ora prima che riparta. L’auto imbocca poi una sorta di tangenziale e il viaggio prosegue spedito. 


E’ notte ma le luci che disegnano il panorama della città danno la sensazione di essere arrivati in una metropoli, così differente dal resto del Paese, in gran parte rurale. Yangon, o Rangoon come l’avevano chiamata gli inglesi, è stata la Capitale dello Stato fino al 2005, quando la giunta militare ha poi trasferito la sede del governo a Naypyidaw, una città costruita da zero, a metà strada tra Yangon e Mandalay, ed eletta a Capitale. La prima cosa che colpisce camminando per le strade di Yangon è la vetusta architettura coloniale che caratterizza soprattutto la zona del delta dell’omonimo fiume. Centinaia di edifici rimasti identici a quando furono costruiti dai britannici, più di un secolo fa, con l’aggiunta di parabole, condizionatori d’aria, tende, cavi penzolanti di ogni tipo. Edifici che conservano un loro fascino agli occhi dei visitatori, e amati meno da chi ci abita. L’accesso ai piani avviene spesso tramite una ripida scalinata che parte all’altezza del marciapiede, di almeno cinquanta gradini. “Come fa una persona anziana?”, fa notare un residente. 


A pochi passi dalla pagoda di Sule, una delle attrazioni di Yangon, negli uffici del turismo, si parla di rigenerazione urbana di edifici coloniali (chissà oggi quali sono gli argomenti!, ndr). Una fondazione inglese parla dei vantaggi che ne deriverebbero, mostrando nelle immagini che scorrono sulla parete della sala alcuni interventi di restyling. L’argomento suscita interesse e alimenta speranze tra i residenti. Ma all’uscita qualcuno mugugna: “Progetto ambizioso ma chi finanzierà gli interventi?”. Si vedrà. Intanto, un classico esempio di architettura coloniale che necessiterebbe di un restyling profondo lo offre la stazione ferroviaria centrale. Meta anche di turisti, perchè da qui parte la ‘circular train’. O meglio partiva. Il treno che in tre ore copriva in modo circolare e capillare tutta l’area urbana e suburbana di Yangon, con la possibilità per il visitatore di immergersi nella vita quotidiana locale restando seduti nel vagone. Da qualche anno delle 39 fermate ne è rimasta solamente qualcuna. All’ufficio informazioni due turiste occidentali sulla cinquantina deluse dalla scoperta si avviano brontolando verso l’uscita. 
Capita nel sud est asiatico che i tassisti non conoscano le strade delle città, spesso si tratta di persone arrivate da remoti villaggi che hanno dovuto inventarsi velocemente un mestiere. Ma a Yangon capita più spesso che altrove. Si possono passare anche ore a girare a vuoto nel traffico, con l’autista che cerca di capire con telefonate a conoscenti, o fermando altri colleghi per strada, la via da fare. C’è anche chi rinuncia, perdendo così la corsa e il gasolio speso, e al passeggero non resta che scendere e sperare che il prossimo taxi sia quello buono. 


ll centro si sviluppa sulle rive del fiume Yangon e corrisponde alla città di epoca coloniale. Strade larghe s’incrociano ad angolo retto con vie animate da ambulanti, negozietti, gioiellerie, tantissime, mercatini sui marciapiedi. E poi c’è l’affollata China Town dove ristorantini e bancarelle di street food restano aperti fino a tardi. 
A dieci chilometri più a nord, nella zona di Parami Road e di Inya Lake, c’è tantissimo verde, campi da golf, ville curatissime, sagome di grattacieli all’orizzonte, Università, anche straniere, laghetti e lunghi viali pieni di palme. Sembra di stare in un’altra città ma è solo la parte ricca di Yangon. Dall’altro lato del fiume c’è invece Dalha, il quartiere povero, in prevalenza musulmano, una township raggiungibile solo con il ferryboat. Non ha una buona fama soprattutto per le truffe ai turisti. “Un posto da evitare, ci sono solo banditi”, mette in guardia qualcuno. In giro tanta povertà, villaggi rurali, un mercato locale, templi, piccoli laboratori artigiani, e un orfanatrofio dove aspettano i turisti per qualche donazione. Un po’ ovunque altra gente chiederà una donazione anche per lo tsunami che colpì anni fa violentemente il villaggio.

Insomma basta andarci preparati. 
Sulla collina di Singuttura c’è forse il simbolo più importante del Mynamar: la Shwedagon Pagoda. Uno stupa di 98 metri ricoperto da venti tonnellate di lamine d’oro che custodisce in cima un diamante di 76 carati. E’ visibile da ogni angolo della città. Il fascino di questa pagoda, all’interno di una vera e propria cittadella di templi, risalta nel suo stupefacente bagliore soprattutto dopo il tramonto, quando splende di decine di luci offrendo una visione mozzafiato, e che da sola vale in viaggio in questa città, ovviamente appena l’emergenza Covid sarà definitivamente terminata.