Testo e foto di Caterina Borgato.
Il mio viaggio continua… Mi piacciono le terre estreme, mi piace provare a capire come ci si riesca a vivere. L’immensa Piana del Sale mi ha folgorata: la sua straordinaria origine geologica, l’umanità che ci vive, l’equilibrio perfetto natura- uomo-economia che si è creato in questa terra stupefacente.
Musulmani e cristiani nella Piana del Sale lavorano insieme, condividono abilità e capacità, hanno bisogno gli uni degli altri per vivere e per conservare una tradizione che resiste da millenni…Allah, Maometto e Dio qui sono la stessa cosa.
In un paese dove niente fa pensare ad un equilibrio (le tensioni religiose, la terra in continuo movimento, confini virtuali, eterei e sempre rivendicati con la forza), musulmani e cristiani riescono a convivere con un obiettivo comune: il commercio del sale, che da tempi immemorabili fa vivere migliaia di famiglie.
Lo sguardo ha ora riferimenti verticali su cui posarsi, non si perde più nell’infinito dai confini tremolanti; da Ahmed Ela, a piedi, lungo il fiume Saba , verso Ovest.
Questi luoghi mi ricordano la storia o leggenda del popolo Sabeo e la sua straordinaria civiltà e cultura…i Sabei del ramlat – at – Sabatayn riuscirono ad arginare il deserto rendendolo un immenso giardino grazie a capacità ingegneristiche e idrogeologiche oggi impensabili da raggiungere, un po’ come i primi abitanti della laguna riuscirono, per potersi difendere e continuare a vivere, a costruire le loro semplici dimore su isolotti semisommersi. Mi piace pensare che la Regina di Saba, nel lungo e mitico viaggio verso la corte di Re Salomone, abbia percorso a piedi questo fiume, con la sua infinita carovana al seguito.
Sono ad Asso Bole: a metà strada tra Ahmed Ela e Berhale.
Ahmed Ela è l’ultimo villaggio lungo la Via del Sale prima di entrare nella Piana, sorto poco più di 20 anni fa come presidio per la conquista della libertà durante la ribellione dei guerriglieri tigrini contro la tirannia di Menghistu; nella stagione meno calda e secca ospita 500 minatori con le loro famiglie che vivono in capanne costruite con rami tra i quali passano polvere e vento e luce, ha una moschea, l’unico edificio in muratura e alcuni “bar” dove è possibile sempre bere un caffè fatto nel pieno rispetto del rituale tradizionale…con pazienza, dopo circa un paio d’ore è possibile assaporarne l’inconfondibile aroma.
Berhale,il villaggio più grande lungo la discesa di oltre2000 metridi quota dall’altopiano etiopico verso la Piana, o la salita dalla Piana verso l’altopiano, nel viaggio di ritorno. 1000 abitanti, più o meno, baracche di lamiera e legno, è il primo mercato, dopo due giorni di cammino uscendo dalla grande depressione e con ancora due giorni di cammino da fare per arrivare a Mekelle, la capitale del Tigray.
Ad Asso Bole un incontro inaspettato: Zhara, la caffettera del fiume Saba.
E’ leila donna Afarche ha deciso di aprire le porte della sua realtà allo straniero, ospitando per la notte, sotto un cielo meraviglioso, su letti di legno e fibre di palma dum intrecciate, chi è in cammino, assieme alle carovane del sale, lungo il greto del fiume.
Il suo busto seminudo e ossuto, coperto in parte da un telo di cotone colorato e leggero, lascia intravedere il seno asciutto e due grandi capezzoli a lungo succhiati; ha gli incisivi limati a punta Zhara, come vuolela tradizione Afar. Icapelli intrecciati le incorniciano il volto e fanno risaltare il suo sguardo intenso e profondo. Non porta al collo nessuna collana fatta con lo scroto essiccato del nemico ucciso dall’uomo che è diventato suo marito…questa è storia delle tradizioni del popolo Afar, a lungo rispettata: questa è sempre stata la prova di virilità di ogni uomo dancalo per poter prendere moglie.
La sua burra, la tipica capanna afar dalla forma emisferica, che facilmente si smonta e trasporta, con il telaio piantato a terra fatto con le costole di foglie della palma dum, legate insieme con corde della fibra della stessa palma, è un punto di riferimento per le carovane che dalla Piana del Sale risalgono verso Mekelle, costruita su una piccola altura, all’inizio del cammino; lei, Zhara, fiera guardiana dei cancelli del fiume che si aprono sulla immensa e accecante distesa bianca, sembra salutare con un “arrivederci a presto” chi dalla Piana del Sale va verso l’altopiano o accoglie con “benvenuto” chi scende nella depressione.
Lenta, nobile in tutte le sue azioni, non ha paura di guardarmi negli occhi accennando un sorriso mentre, seduta su una stuoia polverosa e consumata, aspetto di sorseggiare il caffè che si è offerta di prepararmi.
Il caffè in Ethiopia non è “espresso”; il rituale è una cerimonia, lunga, lenta, come lo scorrere della vita di chi incontro lungo il cammino…non bisogna avere fretta in Ethiopia se si desidera un caffè, né, ancor meno, se te lo offrono! La condivisione non è solo di sapori e profumi, ma anche di indimenticabili momenti di vita.
Fuoco alimentato dal carbone, incenso, foglie di palma distese per terra e sulle quali avviene la cerimonia, una padella per tostare, un mortaio di pietra, la ghebenà, anfora di coccio dal collo stretto e lungo nel quale è infilato un tappo di stoppa, chicchi di caffè verde…la migliore qualità di caffè che esista viene dall’Ethiopia; questo serve a Zhara per preparare il suo caffè…l’aroma dell’incenso si mescola a quello, fortissimo, dei chicchi che si tostano lentamente sulla fiamma.
Mi piace pensare che questo profumo si diffonda in tutta la valle e sulle montagne aride intorno, che anche i carovanieri in cammino lo possano respirare e che possano pensare che Zhara lo sta preparando anche per loro; nel letto del fiume, un’immensa pietraia dalle mille gradazioni dell’ocra, scorre ancora poca acqua che permette ad un piccolo palmeto e al mais di un minuscolo fazzoletto di terra di crescere. L’acqua continua a bollire nella ghebenà…non so davvero quale sia il modo per capire che è ora, non so quanto tempo occorra perché la polvere tostata fatta bollire a lungo possa essere versata e servita…Zhara ogni tanto colpisce la pancia dell’anfora con un cucchiaino, ogni volta tre colpi lenti, quasi svogliati, poi la rimette sulla brace.
In Ethiopia non si beve mai un caffè, ma un caffè è servito almeno tre volte, nella stessa tazzina piccola, sempre dai colori sgargianti. Le tazzine di Zhara sono sbeccate, le prende da terra, ne immerge una alla volta, con tutte le cinque dita, nell’acqua marroncina in un piccolo catino, le agita un po’, le posa sopra le foglie di palma e le riempie di liquido nero, fumante e profumatissimo.
Guardo il mio compagno di viaggio…siamo in cinque seduti fuori dalla burra di Zhara, ma solo in due desiderosi di assaggiare il suo caffè. Ne bevo per tre volte, assaporo il gusto forte e respiro il profumo…il caffè di Zhara, la caffettera del fiume Saba, ha aroma ricco e inimitabile che permane a lungo in bocca e sulla lingua…il miglior caffè che si possa immaginare di bere nella Piana del Sale.
Il marito della caffettera, tagliatore di lastre di sale, pelle color del cacao liscia e lucida, magro, quasi secco, folta chioma riccioluta appena brizzolata, è seduto accanto a noi, i suoi ospiti forestieri. L’ho visto accucciato tra tantissimi estrattori, tagliatori e carovanieri mentre trasformava con il godumà, lo strumento di lavoro del tagliatore della Piana, la grezza e bianca lastra in ganfur, il mattone di sale “commerciale”, l’oro bianco dell’Afar. L’ho riconosciuto anche durante un momento di riposo nel piccolo ristoro, uno dei due, della miniera a cielo aperto, tra pile di grandi mattoni di sale pronti per essere legati o già legati e pronti per essere caricati sui dromedari. Teiere sempre fumanti, annerite dal fuoco e dallo zucchero del the o del caffè bruciati, pane a pezzi cotto sulla brace con pietre roventi…lui, inconfondibile, con la maglietta dai profili rosa e la tazza dello stesso colore.
Nel periodo dell’andare e venire senza sosta delle carovane, la loro vita, assieme ai loro numerosi figlioli, è qui, all’inizio del fiume; sono loro due i guardiani dei cancelli che si aprono e chiudono sulla bianca e grande Piana del Sale profonda kilometri verso il centro della Terra, luogo che toglie il respiro per l’umanità che ho incontrato e per quello che ho visto.
La “mia” Dancalia è questa.
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